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Giorgio Griffa. Dello standard e dell’aleatorio: il tempo, la memoria, il segno
Saggio di Andrea Bellini


Giorgio Griffa è uno degli artisti torinesi meno conosciuti della generazione dell’Arte Povera. Un altro prezioso “segreto” che la città di Torino ha saputo conservare –discreta e altera come sempre – per quasi mezzo secolo. In questa città, a partire dal secondo dopoguerra, un irripetibile gruppo di giovani artisti ha contributo a scrivere la storia dell’arte Europea del secondo Novecento. Oltre a figure ormai universalmente note come Alighiero Boetti, Giuseppe Penone, Giulio Paolini, Giovanni Anselmo, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio, Mario e Marisa Merz, in questa città hanno operato altre personalità di primo piano che solo di recente cominciano a ricevere la giusta attenzione internazionale. Penso ad esempio a Piero Gilardi, Gianni Piacentino, Carol Rama, Salvo, Aldo Mondino, ma anche all’eccentrico e trasversale Carlo Mollino.

Tra la metà degli anni Sessanta ed i primi anni Settanta molti di questi artisti, pur non aderendo all’Arte Povera, hanno gravitato attorno alla galleria di Gian Enzo Sperone, condividendo idee, progetti e passioni. Tutti hanno finito per mettere a punto linguaggi profondamente autonomi e originali dal punto di vista della poetica e della direzione di ricerca.  Il loro infatti è stato un operare fondamentalmente individuale, e molto lontano da quella logica di gruppo che l’etichetta dell’Arte Povera –forse in modo perfino involontario – ha in qualche modo imposto al pubblico internazionale, facendo la fortuna critica di alcuni e mettendone necessariamente in ombra altri.

Personalità tra le piu’ discrete ed isolate di quel gruppo di gruppo di giovani che ruotavano attorno alla galleria di Sperone, Griffa ha dimostrato da subito un interesse esclusivo per la pittura, mentre i suoi compagni di strada si dedicavano nella seconda metà degli anni Sessanta fondamentalmente alla scultura e alla installazione, compresi coloro che piu’ tardi avrebbero recuperato un’originale pratica pittorica come Mario e Marisa Merz.

Giorgio Griffa comincia a dipingere fiori e nature morte alla fine degli anni Quaranta, all’età di dieci o undici anni. Non ancora adolescente conosce Aldo Mondino, un giovane della sua età molto brillante e vivace che non mancherà di avere una profonda influenza sullo sviluppo del suo lavoro.  Nei primi anni Cinquanta vede per la prima volta dal vero un’opera di Mondrian; ne rimane colpito anche se per tutto il decennio Griffa resta un pittore figurativo, piuttosto indeciso, vicino nei modi allo stile di Felice Casorati.

Nel 1960 si iscrive ai corsi privati di Filippo Scroppo[1], un artista astratto che organizza una scuola di pittura nel proprio atelier. La vera formazione di Griffa avviene pero’ come abbiamo detto a contatto con gli artisti torinesi della sua generazione, che conosce presto proprio grazie a Mondino. Oltre a quest’ultimo l’altro punto di riferimento fondamentale per il giovane pittore è il critico d’arte Paolo Fossati[2], il quale presenta[3] la sua prima mostra personale presso la galleria Martano di Torino nel 1968.

L’anno successivo Griffa espone con una personale da Gianenzo Sperone e comincia a frequentare piu’ assiduamente gli artisti della galleria. La sintonia maggiore – dal punto di vista del lavoro – la sente per Giovanni Anselmo, Gilberto Zorio e Giuseppe Penone. Come ha dichiarato egli stesso in diverse occasioni: “mi sono reso conto che la cosa che piu’ mi intrigava in quegli anni era il fatto che loro lavoravano sull’intelligenza della materia – ponevano cioè le basi perché fosse la materia stessa con la sua intelligenza a eseguire il lavoro – ed io credevo nell’intelligenza della pittura. Mi limitavo ad appoggiare il colore sul supporto”[4].

Proprio tra il 1967 ed il 1968 Giorgio Griffa pone dunque le basi del suo linguaggio pittorico, elaborando quel metodo di lavoro che caratterizza ancora oggi la sua attività pittorica. La tela grezza (iuta, canapa, cotone o lino) e senza cornice, viene disposta sul pavimento ad assorbire il colore, nella maggior marte dei casi tinte stemperate con acqua, cioè acrilici, tempere e acquerelli.  La tela deve essere lavorata in piano, stesa sul pavimento, per evitare che il colore molto fluido coli verso il basso. L’assenza della cornice consente all’artista di camminare liberamente sui diversi tessuti, spesso di grandi dimensioni.

Abbandonato ogni elemento figurativo, nel corso degli anni Sessanta aveva praticato una pittura figurativa in stile Pop, il segno pittorico si riduce in modo radicale: diventa traccia, linea, segno anonimo tracciato con il pennello o con una spugna. La tela cessa di essere il ricettacolo di un’immagine compiuta, un luogo definitivo, e diventa frammento fisico di uno spazio discontinuo ed in espansione.  Il metodo di lavoro è semplice ma anche rigoroso: l’artista sceglie ogni volta le componenti elementari del suo intervento. Data la misura della tela ed il tipo di pennello (sottile, largo, la spugna ecc..) si tratta di scegliere la larghezza e la lunghezza dei segni, e quindi il loro ritmo e la loro direzione.  Il momento successivo è rappresentato dalla decisione relativa al “luogo” di inizio di questi segni. Molto spesso l’artista comincia a tracciare i segni partendo in alto a sinistra, come avviene quando si scrive, ma il lavoro puo’ cominciare indifferentemente anche da destra verso sinistra, oppure anche dal basso verso l’alto. La pittura quindi non invade la tela secondo un progetto globale ma è destinata a riempire lo spazio poco a poco seguendo la direzione, il ritmo, la frequenza scelta. La stesura del colore avviene in uno stato che l’artista stesso definisce di “concentrazione passiva”[5]: la mano e la mente seguono con il massimo di attenzione quanto avviene sulla tela. Il tempo e il modo della stesura variano di opera in opera, e sono direttamente legati al tipo di pasta del colore (piu’ o meno liquido), al tipo di pennello e al tipo di tela.  I mezzi diventano i protagonisti dell’opera, ne determinano il tempo di realizzazione, il ritmo, il risultato finale.

L’artista cerca di assumere un ruolo “paritario” rispetto ai mezzi che impiega: stabilita la logica di costruzione dell’opera si mette al servizio del colore, del pennello, della tela: cerca di far evolvere i segni in modo autonomo. Questi ultimi anche se ripetuti in serie sembrano assumere un carattere emblematico: ogni traccia è esemplare e vale per se stessa, ed è quindi anche nuova rispetto a quelle che l’hanno preceduta.  L’artista non riempie completamente la tela, l’opera quindi non appare mai completata, ma resta aperta, “metafora di uno spazio perennemente incompiuto”[6]. Il gesto ripetitivo ad un certo punto viene interrotto e Griffa abbandona la sua opera, i motivi di tale interruzione possono dipendere da diversi fattori, i quali non sono in ogni caso rilevanti.

Da questo momento, collocabile appunto tra il 1967 ed il 1968 fino alle sue opere piu’ recenti, tutta la ricerca di Griffa si fonda quindi su tre coordinate fondamentali: il ritmo, la sequenza e il segno.  Una modalità che l’artista pratica con coerenza anche attraverso il disegno. Come sostiene lo stesso Griffa nella sua intervista con Hans Ulrich Obrist che pubblichiamo in questo volume, il disegno non rappresenta il “progetto per il quadro”, anche se in molti casi fornisce delle idee per la pittura, ma costituisce un aspetto autonomo del lavoro, una sorta di attività parallela a quella della pittura. I suoi piccoli disegni, spesso di diverso formato, esposti purtroppo molto raramente, conservano ed esprimono a mio avviso la forza delle sue opere di grande formato. Come quelle rappresentano la verifica costante del linguaggio e delle sue possibilità narrative e liriche, ne ampiano il repertorio senza voler essere esercizi definitivi o chiusi. Cio’ che vi è di Universale in quei piccoli fogli, come nelle sue pitture, è proprio questa idea della “memoria” della pittura, questa volontà di voler individuare e praticare un gesto semplice che l’uomo ripete e conosce da almeno trentamila anni come dice l’artista stesso, cioè a partire dal Paleolitico. La pratica della pittura diventa quasi un’esperienza passiva, nella quale la soggettività dell’artista di diluisce nella memoria anonima e collettiva dei segni, e nella ripetizione ritmica del gesto. Dipingere quindi non significa piu’ rappresentare ma “esistere”, coesistere con le cose nel tempo, partecipare metaforicamente –perché nella sua apparente ripetizione ogni segno è nuovo-  alla “perenne novità di ogni atto della vita”[7].

Il lavoro di Griffa, per diversi aspetti accostabile al minimalismo, all’arte povera e alla pittura analitica, è in realtà difficilmente inquadrabile in una tendenza specifica. Il suo è un percorso autonomo, frutto di una pratica coerente e solitaria. La sua opera ci appare seducente e al tempo stesso inafferrabile. Io credo che questa “inafferrabilità” dell’opera di Griffa dipenda da una serie di contraddizioni che l’attraversano[8]. I suoi segni apparentemente anonimi configurano in realtà una cifra stilistica precisa, una “lingua” per nulla anonima; il procedimento di realizzazione dell’opera si basa su un impianto razionale ma il risultato è invece sottilmente lirico; l’opera è intenzionalmente aperta eppure i quadri ci appaiono compiuti ed autonomi. Lo standard del procedimento incontra l’aleatorietà del caso e la squisita sensibilità pittorica dell’artista; da questo proviene io credo il fascino della sua pittura. Per quanto mentale e minimale nei presupposti quella di Giorgio Griffa non è una indagine di tipo “analitico” sulla pittura e la sua storia, al contrario è una pratica di partecipazione alla costruzione del reale, è una pittura che non rappresenta ma che esiste, diventa traccia umana al pari di tutti i segni tracciati prima di essa, a partire da quelli trovati nelle grotte del Paleolitico.

L’assenza di questa intenzione “analitica” viene confermata “a posteriori” proprio dallo sviluppo del lavoro, nei decenni Ottanta e Novanta, quando i segni assumono una maggiore complessità ma anche una funzione piu’ liberamente decorativa, quasi barocca rispetto all’estrema riduzione formale messa in atto alla fine degli anni Sessanta. Una volta stabilite le regole grammaticali di base, la lingua si presta ora ad un racconto piu’ articolato e libero, alla declinazione di segni di origine diversa. Griffa accosta in questa fase pattern decorativi inediti, come linee ondulate, linee spezzate, greche, arabeschi, piccole punte cuneiformi, semi cerchi, fregi ondulati ecc.., arrivando spesso a dipingere anche lo sfondo sul quale si stagliano i segni. Questo libero “narrare” di segni sulla tela avviene secondo raffinate scelte tonali, tipiche di un artista attento alla calda materialità della pittura piu’ che all’idea o al concetto. Giorgio Griffa è un pittore “puro” in questo senso, cioe’ un pittore del fenomeno, un pittore “tradizionale” come in piu’ occasioni si è definito lui stesso. La gamma cromatica, tra colori complementari e mezzi toni, cosi’ elegante e ormai cosi tipica del suo lavoro, Griffa sembra attingerla dal Rinascimento e dalla pittura veneta del Cinquecento e del Seicento. L’altro riferimento fondamentale è poi Matisse, il pittore della felicità del colore e dell’immagine come tensione equilibrata tra segni e colori. In particolar modo Griffa guarda all’ultimo Matisse, con la sua riduzione radicale degli elementi del linguaggio visivo: il colore piatto, la pura superficie, l’autonomia del contorno. Pur utlizzando un registro tonale piu’ tenue, un’eco della pittura di Matisse si percepisce nei lavori piu’ recenti di Griffa: penso al gioco costruttivo dell’immagine tutta in superficie e alla delicata combinazione a mosaico dei diversi elementi decorativi.  Perfino i numeri che compaiono sulle sue tele all’inizio degli anni Novanta –al di là del loro chiaro valore simbolico- finiscono per inserirsi nella composizione con una funzione decorativa: sono essi stessi disegni colorati, segni che si aggiungono ad altri segni.

I numeri sono comparsi nella sua opera prima per elencare le diverse tele di uno stesso ciclo[9], poi per segnalare l’ordine con il quale i segni venivano distruibuiti sulla tela, ed infine con riferimento alla sezione aurea, l’unità di misura della perfezione e dell’ignoto. Il rapporto aureo produce un numero che non finisce mai: 1,61803398874989… eccetera, procede per sempre, sino alla fine del tempo. Il numero aureo –inoltre- non procede neppure di un millimetro nello spazio, infatti 1,618 non diventerà mai 1,619 e così via. Fin dai tempi di Orfeo questo numero rappresenta la metafora del compito lasciato all’arte, alla poesia, alla musica: discendere nell’ignoto e dire l’indicibile. Questo è –secondo Griffa- anche il compito della pittura, non rappresentare il mondo ma conoscerlo, partecipare alla sua costruzione: io non “rappresento” io “dipingo” ha dichiarato l’artista stesso.  Con coerenza e rigore, ma anche con leggerezza e poesia, Giorgio Griffa dipinge ancora a Torino, da ormai oltre mezzo secolo, e la sua pittura così elementare e al tempo stesso raffinata esprime oggi tutto il fascino di una lingua inattuale, fuori dal tempo e quindi eterna. La nostra speranza è che un pubblico sempre piu’ ampio abbia la possibilità di accedere dal vero all’opera di questo singolare e straordinario pittore italiano.

Vorrei ringraziare gli appassionati autori di questa monografia: Chris Dercon, Hans Ulrich Obrist, Laura Cherubini, Marianna Vecellio, Suzanne Cotter e Martin Clark. A questi ultimi due e a Adrienne Drake va la mia piu’ profonda gratitudine; l’opera di Giorgio Griffa sarà presentata –dopo la mostra di Ginevra- nelle diverse istituzioni che dirigono: il Museo Serralves a Oporto, la Kunsthalle di Bergen e La Fondazione Giuliani a Roma. Si tratta di quattro grandi mostre personali, tra loro differenti, il cui obbiettivo è mettere in risalto le diverse caratteristiche e la straordinaria ricchezza di quest’opera pittorica. Vorrei ringraziare infine Giorgio Griffa per il tempo che mi ha dedicato durante la preparazione dei diversi progetti espositivi e per le cose che mi ha insegnato sull’arte e sulla vita.

[1]     Filippo Scrotto (1910-1993) è stato un pittore astratto ed intellettuale italiano, Nel 1948 è assistente di Felice Casorati alla cattedra di Pittura dell’Accademia Albertina di Torino, dove insegnerà fino al 1980. Ricopre inoltre la cattedra di Pittura della Scuola libera del nudo. Dal 1955 fino ai primi anni Ottanta organizza una scuola nel proprio atelier, formando una serie non indifferente di artisti: Griffa, Maggia, Scanu, Politano, Tuninetto, Pacini, Egle Scroppo.
[2]     Paolo Fossati è stato uno studioso e critico d’arte, scrittore, dirigente della Giulio Einaudi Editore e docente universitario. Nato ad Arezzo, si è trasferito a Torino, dove si è laureato in filologia romanza presso la locale Università. Nel 1965 a iniziato a lavorare come critico e storico dell’arte presso l’Unità. All’inizio dei anni Sessanta passa alla Giulio Einaudi Editore dove si è occupato di letteratura, filosofia, psicoanalisi e storia. Autore di numerosi saggi, insieme a Giulio Bollati ha curato il coordinamento editoriale della Storia dell’arte italiana e della serie di libri Einaudai che hanno essi stessi avviato.
[3]     Paolo Fossati, Griffa tra empiria e funzionalità, Catalogo della galleria Martano, Torino, Aprile 1968.
[4]   Cf Intervista a Giorgio Griffa, in Torino Sperimentale, 1959 – 1969, Ed. By Luca Massimo Barbero, Allemandi editore, Torino 2010, p. 415. Cfr anche l’intervista all’interno di questa pubblicazione, pag.
[5]     Paolo Fossati, Mario Bertoni, Griffa, Essegi artisti contemporanei, Ravenna, 1990, p. 86.
[6]     Ivi.
[7]     Ivi.
[8]     Considerazioni che fa l’artista stesso in chiusura del testo appena citato.
[9]     Si tratta del ciclo “Tre linee ed un arabesco”.
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