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Una farina che non esiste
Asincronie, Smisuratezze e Altri travisamenti
di Roberto Cuoghi

Testo di Andrea Cortellessa


Quanto di sinistro avrai da leggere non è nient’altro che la verità più vera e la più netta e onesta mai vista né sentita
Da iḍā e piṅgalā a iḍā e iḍā o piṅgalā e piṅgalā

«Perdonatemi tutti […] Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno», disse l’artista. «Lo ammiriamo infatti», disse condiscendente il guardiano. «E invece non dovete ammirarlo», disse l’artista. […] Perché io devo digiunare, non posso fare altrimenti […], perché non riuscivo a trovare cibo che mi piacesse. Se lo avessi trovato, credimi, non avrei fatto storie e mi sarei rimpinzato come te e tutti gli altri». Furono le sue ultime parole, ma negli occhi spenti c’era ancora la salda, anche se non più fiera convinzione di continuare a digiunare.
Un artista del digiuno

Accetta il mistero
A Serious Man

 

Ortopedie della visione

È un segno del destino, forse, che la parabola ricca e strana di Roberto Cuoghi inizi sotto il segno dell’equivoco. Fra il 1996 e il ’98, quando dunque deve ancora compiere venticinque anni e frequenta l’Accademia di Brera[1], Cuoghi si sottopone infatti a una serie di prove iniziatiche, pratiche ascetiche di natura metamorfica ai quali resta legata, ancor oggi, parte non esigua della sua fama. Non c’è infatti un suo profilo biografico, per quanto essenziale, che non faccia cenno all’ultimo, e in effetti più perturbante, di questi episodi: quello per cui nell’arco di sette anni, a partire dal ’98, decide di trasformare il proprio aspetto, artificialmente appesantendosi e invecchiandosi sino a far coincidere la propria immagine con quella di suo padre. L’anno prima, invece, per undici mesi aveva smesso di tagliarsi le unghie delle mani. Ma è significativo che, ogni volta che ne ha l’occasione, Cuoghi tenga a negare che questi processi vadano intesi quali sue “opere”: non sono, queste, performance né “sculture viventi” (sebbene non eviti di inserire, all’interno di quelli che invece considera suoi lavori a tutti gli effetti, immagini o altri documenti che vi facciano riferimento: come il testo-didascalia, a suo tempo esposto nello spazio di Viafarini a Milano, sulla crescita abnorme delle proprie unghie, o gli autoritratti “da vecchio” disseminati in opere come il video d’animazione The Goodgriefies, del 2000: dove impersona una sorta di corpulenta divinità indiana).

Non si tratta (solo) di un vezzo d’artista, in fuga da un mitobiografema che minaccia di ingabbiarlo in uno stereotipo. Credo abbia ragione, Cuoghi, a considerare questi episodi non opere in sé bensì, semmai, loro preliminari: processi di preparazione, esercizi spirituali che (come nella tradizione fondata da Ignazio di Loyola o, come si vede ancor meglio in quella antica dell’esicasmo, dalla quale questa deriva)[2] si fondano su un allenamento specifico del corpo, una sua predisposizione autoplastica, antropotecnica (come di recente Peter Sloterdijk ha rideclinato questa tradizione di lungo periodo)[3], ad accogliere un pensiero diverso, una diversa «grammatica della visione» (per usare invece una vecchia, ma sempre utile definizione di Maria Corti)[4].

Esemplare, in questo senso, il primo di questi episodi – col quale simbolicamente, per convenzione[5], viene fatta cominciare l’opera matura di Cuoghi. Nell’autunno del 1997 indossa degli occhiali da saldatore sui quali ha montato, al posto delle lenti, dei primi di Schmidt-Pechan: strumenti impiegati nella fabbricazione di telescopi che ribaltano l’immagine di 180°, in sostanza rovesciando la destra e la sinistra. È un’alterazione molto più spiacevole di quanto Cuoghi avesse previsto (anche il processo di trasformazione in suo padre, iniziato l’anno seguente, una volta concluso gli lascerà scompensi e disturbi fisici che richiederanno anni di cure e interventi chirurgici), e infatti alla nausea e al disorientamento resiste solo cinque giorni. Nei quali però fa in tempo a realizzare una settantina di autoritratti e una serie di testi dalla grafia deforme, “a zampe di gallina”, che intitola Il Coccodeista (come prendendo parte a un immaginario movimento artistico fondato sul verso appunto della gallina). I testi, dalla sintassi elementare, fanno riferimento ai medicinali che deve assumere e alle terapie che deve affrontare, e in generale alla situazione problematica in cui s’è cacciato[6]; mentre fra gli autoritratti ce ne sono diversi nei quali il soggetto indossa, oltre ai visori, una bandana col simbolo tradizionale del Sol Levante, come impersonando un kamikaze. Era in effetti «un lavoro da kamikaze», dirà in seguito Cuoghi[7], ma non solo per la sua componente autodistruttiva; a loro volta i kamikaze impiegati dall’aeronautica giapponese sul finire della Seconda guerra mondiale, infatti, sono un esempio di quelle sopravvivenze moderne della tradizione ascetica discusse da Sloterdijk: la fascia di cotone da loro indossata attorno alle tempie, l’hachimaki, è simbolo di impegno personale diffuso nelle cerimonie scintoiste (ma anche nel mondo dello sport o tra i suonatori di taiko, il tamburo tradizionale giapponese; è interessante, considerando il successivo percorso ascetico di Cuoghi, che oggi sia solito indossarlo, nel corso delle sue performance, Takeru Kobayashi, incontrastato campione di alimentazione agonistica)[8].

Quello di Cuoghi si può interpretare come un «anacronismo». Non però macroscopico, manieristico e (de)storicistico – come quello inaugurato da de Chirico, per intenderci, e in seguito fatto proprio per esempio da Giulio Paolini. Quello prodotto da Cuoghi è un errore di coincidenza minimo, più precisamente un’asincronia: uno sfarfallio che non modifica i tratti connotanti l’immagine bensì i suoi margini di comprensione – la sua definizione ultima, cioè, resa impossibile dagli “armonici” che la circonfondono. Asincroni, proprio, s’intitolano i disegni in bianco e nero realizzati da Cuoghi nel 2002, che sottopongono a un trattamento particolare (sovrapponendo acetati trasparenti ed effetti che ricordano l’azione di muffe corrosive) immagini appartenenti ad archivi famigliari, in alcuni casi ritratti dei suoi stessi parenti defunti. In questo modo il repertorio delle foto di famiglia – così spesso rivisitato dagli artisti d’oggi – si presenta in una veste tutt’altro che rassicurante, elegiaca: al contrario “aliena” e sottilmente ostile. Il passato è davvero una terra straniera[9].

Esemplare il lavoro cui Cuoghi mette mano al termine dei sette anni di lavoro su di sé in forma di sessantenne: Senza titolo (2005) è un autoritratto di profilo in cui la sua figura, alla maniera di Arcimboldo, è costruita giustapponendo giocattoli e pupazzetti infantili (si riconoscono, fra gli altri, Snoopy e Titti il canarino), per poi essere ripresa con la tecnica lenticolare usata per produrre immagini tridimensionali (alla maniera degli autoritratti più recenti di Luigi Ontani): un’immagine che percepiamo “sfalsata”, fuori fuoco, travisata. Viceversa, per realizzare le immagini di Kinderama (2010) Cuoghi ha approntato con mezzi di fortuna (una spazzola da bucato, un portasigari e le lenti montate su due barattoli) un visore stereoscopico col quale ha fotografato i bambini che, invitati dalla DESTE Foundation di Atene, giocavano con le opere della sua collezione[10].

L’opera – si capisce – è il giardino d’infanzia in cui è stato trasformato il museo d’arte contemporanea, non i visori impiegati per fotografarlo; è l’autoritratto “arcimboldesco”, non il processo autopoietico che ha portato l’artista ad assumere quell’aspetto; è l’autoritratto-kamikaze, o la scrittura “gallinacea”, non l’atto preliminare di indossare i visori Schmidt-Pechan. I quali, come l’ominosa metamorfosi in suo padre (o, molto più avanti, la laboriosa costruzione a mano di oltre cento strumenti musicali ricalcati su quelli documentati in Mesopotamia fra il 1400 e il 600 a.C., al fine di poter registrare, nel 2008, il dissonante, tragico coro di Šuillakku; o ancora, nella preparazione dell’ultima opera Putiferio, la realizzazione casalinga, in studio, degli speciali forni idonei a produrre i granchi di ceramica destinati a gremire, il giorno del Solstizio d’Estate del 2016, l’isola greca di Hydra), vanno appunto considerati meri strumenti, protesi ottiche che consentono all’artista-asceta di trasformare radicalmente i propri protocolli percettivi e operare, così, un sistematico travisamento della realtà.

Anche i lavori in apparenza più tradizionali, come le sculture, sono a loro volta delle boîtes-à-méprendrer. Belinda per esempio, la statua colossale che accoglie i visitatori all’ingresso del «Palazzo Enciclopedico», alla Biennale di Venezia del 2013, è fatta di una materia plastica leggerissima che simula però un peso mostruoso («con un dito si sposta», dice Cuoghi intervistato durante il suo allestimento) e la patina “vulcanica” che la ricopre, facendola sembrare una concrezione lavica, è ottenuta – spiega sempre Cuoghi – mediante «cenere da pizzeria»[11]. Allo stesso modo, la trasvalutazione del demone Pazuzu (come vedremo in seguito) è stata ottenuta, nel 2008, realizzando al laser una scansione tridimensionale di un amuleto di bronzo di piccolissimo formato («grande come una sorpresina delle patatine», ha detto Cuoghi a Laura Cherubini)[12], proveniente dall’antica Mesopotamia e conservato al Louvre; l’immagine digitale è stata poi modellata in resina epossidica su scala gigante (alto quasi sei metri, con un’apertura alare di tre, è – dice sempre Cuoghi – «un Pazuzu da piazza con le proporzioni di Vittorio Emanuele a cavallo»; secondo il progetto iniziale avrebbe dovuto misurare quattordici metri); infine è stata collocata sul terrazzo di fronte all’ingresso del Castello di Rivoli. Lo stesso ultimo lavoro, Putiferio – del quale i fumi e le ceneri sollevate, quel giorno a Hydra, travisano il senso, lo sospendono – si basa sulla scansione, a mezzo d’una stampante 3D, di veri crostacei presi al supermercato, ovviamente di formato molto più piccolo. L’ingrandimento, ancorché fedele, di per sé è a sua volta un travisamento: per via di dismisura. Proprio alla smisuratezza è in effetti dedicato un libro-progetto multidisciplinare ideato da Cuoghi e pubblicato nel 2013 col titolo De Incontinentia[13].

Anche far crescere le proprie unghie è servito, a Cuoghi, a dotarsi di «inediti strumenti grafici, pennini sempre pronti all’uso con i quali è possibile disegnare o scrivere»[14], poi a descrivere il processo in un testo-didascalia e infine, una volta tagliate, a regalarle a un’amica che con esse ha realizzato una collana. Sulla base della sua attitudine all’autoeducazione corporea, peraltro, Cuoghi ha fatto in modo che le proprie unghie, crescendo, prendessero una forma elegante[15], armoniosa come quelle di un mandarino cinese o di Florence Griffith-Joyner[16], e non bizzarramente ricurve e piegate all’interno, come nell’icona di Nosferatu[17], o come quelle “filosofiche” di Gilles Deleuze (il quale peraltro spiegò, una volta, come la loro crescita abnorme fosse dovuta a una malformazione dei suoi polpastrelli, privi di impronte digitali e, dunque, di protezione tattile: «toccare con la punta delle dita un oggetto e soprattutto un tessuto, mi comporta un dolore nervoso che richiede la protezione delle unghie lunghe»)[18].

 

Dopo Babele

Sia come sia, è appunto a un quanto mai deleuziano Principio Metamorfosi che si può ricondurre, nel suo complesso, la ricerca di Roberto Cuoghi. Ha scritto Luca Cerizza: «nel mondo di Cuoghi, l’ibridazione si produce a tutti i livelli: fra passato e presente, natura e tecnica, cultura “alta” e cultura popolare […]. Sebbene connotata da uno humour cupo e quasi decadente, l’arte di Cuoghi allude al fatto che viviamo in un’epoca in cui ogni residuo concetto di purezza viene rifiutato: qualcosa come la mitica età di Babele rivisitata»[19]. Al mito di Babele, in effetti, Cuoghi fa spesso riferimento. È da supporre che a destare il suo interesse sia intanto il fatto che, prima che cominciasse a crescere la ziggurat che, nelle intenzioni del popolo datosi convegno nella piana di Sennaar, sarebbe dovuta salire fino al cielo, il racconto veterotestamentario ricordi come si  fossero dovuti cuocere in forno i mattoni per costruirla. Ma è significativo pure che in più occasioni[20] Cuoghi abbia ricordato l’interpretazione che del mito aveva dato, in uno dei suoi ultimi scritti, Giorgio Manganelli: per il quale «la costruzione della torre di Babele non nacque da tracotanza d’orgoglio ma dalla disperazione. Secondo il racconto biblico, gli uomini parlavano un’unica lingua, e le parole erano per tutti le medesime; ma non avevano un nome».

Manganelli si appoggia a queste parole, attribuite al popolo di Sennaar da Gen. 11, 4[21]: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome». Ma si discosta dalla traduzionale interpretazione cristiana (con Dio che punisce gli uomini, confondendo le loro lingue e disperdendoli sulla Terra, per la l’hybris di aver voluto dare la scalata al cielo; farsi un nome equivarrebbe semplicemente, in questo caso, ad «acquisire fama») per avvicinarsi invece, piuttosto, a quella ebraica: nella quale il cenno al nome si riferirebbe piuttosto al segreto delle lettere del nome di Dio, che agli uomini consentirebbe di governare, al suo posto, gli angeli suoi ministri. Al racconto biblico Manganelli dà una piegatura ulteriore, un giro di vite: prima della punizione divina, il «deserto onomastico» che li renderà un «volgo disperso che nome non ha»[22], gli uomini di Babele «non erano sudditi, non angeli e non demoni». Il loro potere è grande, ma poggia su un manque decisivo: essi «possono nominare tutto, ma non se stessi». «Erano disperati, insidiati dalla follia», prosegue Manganelli, «poiché non avevano nome»[23]. Erano privi, cioè, d’identità[24]: proprio come Deleuze, nel rendersi conto d’essere privo della marca distintiva rappresentata dalle impronte digitali. Il tentativo frustrato dell’umanità è quello di conoscere la propria identità. Anzi di produrla: appunto dandosi un nome.

Lo si diceva: divenire diversi non è l’opera in sé (come nel comportamentismo o nella body art), bensì lo strumento decisivo per poter fare diverso. A uno come Cuoghi non interessano in sé le attitudes – per citare il titolo d’una mostra celebre – ma la form che esse hanno la ventura di become. Non è il suo, però, un feticismo formalista, perché l’esito da lui così ottenuto non ha mai qualcosa di fissato, di definitivo; e per questo, per la sua instabilità strutturale (come nel caso di Belinda, col suo volume imponente poggiato su una superficie minima e oltretutto s-centrata, fuori baricentro), che eccede qualsiasi canone formale del proprio tempo: così acquistando i connotati “disturbanti” spesso evocati, con formula un po’ convenzionale, dai suoi commentatori.

Il testo più intenzionalmente “disturbante” che abbia scritto Cuoghi s’intitola Il Tumore Liberato: una paradossale difesa d’ufficio, scritta adottando uno stile pseudo-giuridico, delle cellule tumorali: «l’aberrazione non solo non manca, ma ancor più nobile è il suo significato se lo si prospetta in termini evolutivi […] ed è indubbio che l’iniziativa tumorale sia manifestazione di un male necessario, senza meriti, se non verso se stessa […]: in altre parole questa è la storia di una prova impetuosa che, se non fosse per l’incapacità di intendere e di volere, avrebbe l’accezione eroica del sacrificio per nobilissima causa»[25]. Siamo di fronte all’humor noir di cui parla Cerizza, certo; ma c’è anche un’implicazione “seria”, in questo testo, che può ricordare certe non meno paradossali – ma serissime – prese di posizione di David Cronenberg: il quale – commentando le mutazioni mostruose, la «nuova carne» messa in scena da film come Videodrome o The Fly – sosteneva come non si dovesse adottare la prospettiva del corpo infestato quanto piuttosto, invece, mettersi dalla parte del virus[26].

Il nome ritrovato da Cuoghi coincide dunque con la sua sorte. Davvero, è il caso di dire, nomen omen. Le pratiche autopoietiche adottate in gioventù si ritrovano nell’attitudine fabbrile, alchemica piuttosto che demiurgica, a forgiare in proprio i suoi strumenti. In questo senso mi pare vada intesa la particolare forma di deskilling da lui adottata[27]. Ragionando sulla componente esoterica del suo immaginario, Yorgos Tzirtzilakis ha ricordato un aneddoto sulla vita di Eraclito raccontato da Aristotele[28] e ripreso da Martin Heidegger nella sua celebre Lettera sull’«umanismo»: «di Eraclito si riporta un detto che egli avrebbe proferito a degli stranieri che volevano incontrarlo. Avvicinandosi, lo videro mentre si riscaldava a un forno. S’arrestarono sorpresi, soprattutto perché, vedendoli esitanti, egli li incoraggiò, invitandoli ad entrare, con queste parole: “Anche qui sono presenti gli dèi”». Commenta Heidegger che ci si aspetterebbe da Eraclito, l’Oscuro, di trovarlo con «i tratti dell’eccezione, dell’insolito e quindi dell’eccitante», mentre per lui il luogo del trascendente coincide, al contrario, col luogo della massima, feriale quotidianità: un luogo dove «si cuoce il pane». Dunque è proprio nella sua semplice umanità, conclude il filosofo moderno, che l’uomo «abita nella vicinanza di Dio»[29]. Aggiunge però Tzirtzilakis come non possa essere un caso che nell’aneddoto di Aristotele a Eraclito venga associato proprio il fuoco: che da lui è detto principio e fine di tutte le cose[30]. Inoltre Eraclito, aggiungo a mia volta, è anche il primo pensatore del divenire: il primo della filiera che, passando per Nietzsche, giunge sino a Deleuze. Ed è proprio il fuoco, perpetuamente mobile, per eccellenza lo strumento – conservato nel forno, nell’athanor alchemico – della trasformazione della materia (nella sentenza dell’Oscuro: «Tanto le cose tutte sono un baratto in cambio del fuoco, quanto lo è il fuoco in cambio delle cose tutte; proprio come lo sono i beni in cambio dell’oro, e l’oro in cambio dei beni»)[31].

Come scrisse in un’altra occasione Manganelli, «Eraclito ama l’occulto, il contraddittorio, ed ama il fuoco: continui, impetuosi guizzi di incendio, forse un grande incendio del mondo, ustionano queste schegge esili ed eterne». Bruciante, infatti, è anzitutto il linguaggio “scheggiato” di Eraclito: il suo parlare enigmatico, «per cicatrici in forma di ideogramma»[32]. Sostiene Tzirtzilakis, sulla scorta di Agamben, come la creazione artistica possa essere intesa quale secolarizzazione della creazione angelica, ovvero della parola profetica. Enigmatici sono a loro volta i testi scritti da Cuoghi; ma certo si presenta come strutturalmente profetico (figuralmente aperto, cioè, al completamento da parte dei suoi lettori a venire) quello con cui più ha voluto interrogare la natura profonda, e le insolubili aporie, del linguaggio verbale: Da iḍā e piṅgalā a iḍā e iḍā o piṅgalā e piṅgalā. Nell’omonimo libro d’artista, pubblicato nel 2014, è riportato un breve testo scritto da Cuoghi in italiano («un “testo contenitore”», lo ha definito Nicoletta De Rosa, «i cui contenuti sono in cifra, in parte modellati sugli antichi testi profetici»), poi sottoposto a una catena di ventuno traduzioni (tante quante sono le lettere dell’alfabeto adottato dalla nostra lingua) in dodici lingue diverse: il testo di partenza (riportato, nel volume, anche in versioni di servizio in francese e inglese) viene tradotto in serbo, il risultato viene tradotto in cinese, questo in finlandese, poi in lingua Quechua (quella delle popolazioni andine a cavallo di Perù, Bolivia ed Ecuador), per poi “tornare” all’italiano passando di nuovo attraverso finlandese, cinese e serbo. Viene a questo punto riportato il testo retro-tradotto in italiano, che poi riparte per il suo viaggio attorno al mondo: tradotto in russo, arabo, giapponese e Mixe (la lingua degli indios dello stato messicano di Oaxaca), viene ri-tradotto una seconda volta in italiano. Il risultato viene sottoposto a una terza catena di mutazioni: passando per il turco, lo sloveno, il greco moderno e la lingua Toba (che appartiene a un ceppo isolato di indios della regione del Chaco, nel nord dell’Argentina). Da notare è che nessuno dei traduttori era stato messo al corrente del gioco nel quale sarebbero stati coinvolti.

Com’era prevedibile, quasi nulla del testo “di partenza” è restato, alla fine di questo triplo giro del mondo, in quello “di arrivo”. Come dice Nicoletta De Rosa, ogni traduttore si è così fatto «involontariamente complice del rituale della divinazione, il quale dimostra l’assenza di ogni nesso causale tra i segni da interpretare e il testo risultante». Così, conclude, sta ora a noi lettori interpretare la profezia contenuta nel testo[33]. Certo l’esperimento di Da iḍā e piṅgalā a iḍā e iḍā o piṅgalā e piṅgalā dimostra come il linguaggio, che convenzionalmente consideriamo uno strumento di comunicazione, sia piuttosto una selva oscura percorsa da infinite occasioni di travisamento. Nel suo epocale Dopo Babele, George Steiner ricorda le sentenze di Nietzsche (Sulla verità e la menzogna in senso extramorale), «un confronto tra lingue differenti mostra che il fatto centrale delle parole non è mai la loro verità o adeguatezza; giacché altrimenti non vi sarebbero tante lingue»; e, più radicale ancora, di Talleyrand: «la parola è stata data all’uomo per mascherare il suo pensiero»[34].

Il “telefono senza fili” di Da iḍā e piṅgalā a iḍā e iḍā o piṅgalā e piṅgalā ha un precedente, nell’opera di Cuoghi, all’altezza di Mbube (2005). Partendo da una fortunatissima canzone pop, The Lion Sleeps Tonight, che nel 1961 – incisa da Hank Medress e The Tokens – salì al primo posto in classifica negli Stati Uniti, Cuoghi ne ha studiato la lunga storia di arrangiamenti, trasformazioni e appropriazioni, risalendo alla versione originaria: scritta nel 1939 dal cantautore sudafricano di etnia zulu Solomon Linda, Mbube (che in zulu significa appunto «leone») divenne popolarissima già in Africa negli anni Quaranta, ma Linda non ne percepì mai i diritti e morirà in povertà nel ’62, senza neppure vedersi riconosciuta la paternità dell’hit statunitense. Senza una specifica preparazione musicale, Cuoghi ha riarrangiato il brano originale impiegando strumenti musicali da lui stesso costruiti (e in qualche caso inventati), per infine eseguirlo in prima persona. In questo caso percorrendo a ritroso la serie dei travisamenti, nel tentativo impossibile di fare giustizia di questa lunga catena di espropri e sottrazioni: a partire dal nome che, dimenticato, si trova alla sua origine.

Ma, se è per questo, si conosce un precedente ancora più preciso. Nel 1967, in un’intervista, Eugenio Montale proponeva un esperimento: «si prenda la poesia di un italiano, la si faccia tradurre in francese. Si prenda poi quel che si ottiene e lo si faccia tradurre in inglese […] e avanti ancora […] e finalmente, da quest’ultima traduzione, se ne ricavi un testo in italiano». Alla fine, in luogo del testo originale, apparirà «un’altra cosa […] forse migliore di quand’era partita. Tutto può capitare, non si sa mai», concludeva Eusebio (in una nuvoletta di zolfo). Passa una decina d’anni e Montale passa all’azione, fornendo precise istruzioni alla complice Maria Corti. Si prenda una delle poesie più memorabili delle Occasioni, Nuove stanze (curiosamente, anche in questo caso il testo di partenza è del 1939…), la si traduca in arabo, si passi il risultato al traduttore francese, poi al polacco, al russo, al ceco, al bulgaro, all’olandese, al tedesco, allo spagnolo, per tornare alla fine all’italiano. Ci sono voluti altri vent’anni, ma nel 1999 il risultato del gioco è venuto alla luce[35]: anche in questo caso, come prevedibile, l’energia dell’errore – come la chiamava Šklovskij[36] – ha prodotto, alla fine del “giro”, un testo completamente nuovo. Basti pensare che Clizia, severa alleata metafisica, sparisce: sostituita da un implacabile avversario di sesso maschile. Ma succede pure che, lungo la trafila, parole e immagini già cancellate tornino, in sedi impreviste, diverse da quelle di partenza: revênants altrettanto inquietanti, a ben vedere, del capovolgimento del senso complessivo del testo.

In modo non così diverso, in Da iḍā e piṅgalā a iḍā e iḍā o piṅgalā e piṅgalā, capita che l’immagine iniziale del testo di Cuoghi («Gli angeli mettono il pane in forno»), sparita alla terza retro-versione in italiano, alla fine del percorso riappaia in una forma stravolta, «Sembra che per fare il pane stia cercando una farina che non esiste», che pare alludere alla sostanza irridente dell’intero progetto: la farina che non esiste è quella materia verbale spuria, irreparabilmente corrotta, che ciò malgrado ha finito per produrre il «pane» dell’opera. Sempre nell’ultima versione si legge, in perfetta sintesi: «Così ogni cosa si sviluppa senza esaurirsi e non prende una forma definitiva». Il che pare spettralmente “rispondere” a una frase quanto mai “oscura” del testo originale: «Quanto di sinistro avrai da leggere non è nient’altro che la verità più vera e la più netta e onesta mai vista né sentita». Sogghignava Montale, negli stessi anni in cui congegnava il suo “telefono” poetico: «L’ipotesi che tutto sia un bisticcio, / uno scambio di sillabe è la più attendibile. / Non per nulla in principio era il Verbo»[37].

Questa clausola biblica, senz’altro beffarda, non è però solo giocosa. Mi racconta Nicoletta De Rosa, sempre a proposito di Da iḍā e piṅgalā a iḍā e iḍā o piṅgalā e piṅgalā, che la caduta dell’incipit si è dovuta all’“obiezione di coscienza” posta a un certo punto del “viaggio” da uno dei traduttori, convinto di trovarsi di fronte a un testo appartenente a una confessione religiosa a lui estranea. Del resto forse il primo e più eloquente caso di travisamento – per cui la farina che non esiste dell’errore di traduzione ha prodotto il pane di una tradizione non meno solida per essere perfettamente “inventata”[38] – si è prodotto proprio in ambito religioso. È infatti abbastanza nota la circostanza per cui il Bue e l’Asinello del Presepio siano presenze sconosciute al testo evangelico, tardivamente introdotte nell’iconografia del Natale da un errore di traduzione dal greco in latino della Bibbia dei Settanta: laddove, nella profezia di Abacuc, si preconizzava la nascita del Salvatore en meso duo zoon, «a discrimine fra due età», quest’ultima frase divenne invece (equivocando fra il genitivo plurale di zoè, «età» e quello di zòon, «animale») in medio duorum animalium. Dal momento che un altro profeta, Isaia, sapienzialmente aveva scritto che «il bue ha riconosciuto il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone», i due animali vennero da un certo momento in avanti identificati nel bue e nell’asino, appunto (una tradizione attestata, per esempio, già nel Vangelo Apocrifo dello pseudo-Matteo, risalente all’VIII-IX secolo). Nel suo sulfureo libello postumo Il presepio, per intero dedicato alla «farsa teologica» del Natale, Manganelli non ha mancato di alludere a questa curiosa vicenda: «Bue ed asino non esistevano; nacquero da un genitivo plurale frainteso da un monaco traduttore. Quando costui scrisse “tra due animali” anziché “tra due età”, i due animali si materializzarono, con perplessi ragli e mugghi»[39].

 

Angeli e demoni

Quando, disperso alla periferia di Milano, finalmente pervengo nello studio-fornace-athanor nel quale Roberto Cuoghi, Alessandra e Nicoletta si trovano confitti, sprofondati, mi colpisce subito – ben visibile, scritta com’è a caratteri cubitali su un’insegna collocata sopra l’ingresso – la scritta LOTTA, la cui perentorietà può ricordare quella dell’avvertimento ominoso al vestibolo dell’Inferno dantesco[40]. Come mi spiegano con un sorriso gli abitanti di LOTTA, questo però non è che un anagramma ricavato dall’insegna pubblicitaria di un benzinaio – TOTAL. Mentre Cuoghi mi spiega nel minimo dettaglio tecnico il procedimento che verrà impiegato per realizzare i granchi di ceramica di Putiferio[41] (titolo, questo, perfettamente “infernale” – stando all’etimo: «discorso che solleva fetore»), mi distraggo chiedendomi oziosamente se sia più importante riconoscere la pubblicità dietro quella professione di antagonismo, oppure svelare il potenziale antagonista della pubblicità… del resto anche quella marca di carburante, a ben vedere, trasvaluta in termini mercantili un concetto metafisico come la totalità

Di nuovo mi viene da pensare all’Inferno, e ai suoi demoni, quando la Trinità di LOTTA mi offre del pane cotto dalle loro mani, nei loro forni. Il pane è delizioso, ma mentre lo addento non riesco a evitare la sensazione che, in quel modo giocoso, si stia officiando un rito preciso e non proprio rassicurante – una profanazione bella e buona dell’Eucarestia. Ma non è poi questo, il senso ultimo dell’operazione di Da iḍā e piṅgalā a iḍā e iḍā o piṅgalā e piṅgalā? All’inizio del percorso, all’incipit del testo scritto da Cuoghi, risuona l’eco di uno dei testi più intimi e insieme solenni della liturgia cattolica, l’inno Sacris solemniis di San Tommaso d’Aquino, che proprio l’Eucarestia mette in scena («Panis angelicus / fit panis hominum; / dat panis cælicus / figuris terminum» ecc.); il quale in seguito però, nelle alterne vicende del suo percorso fra le lingue, finisce come s’è visto per capovolgersi in un’icastica rappresentazione di Babele, demoniaca confusione delle lingue. La moltiplicazione degli idiomi, comminata al genere umano dall’implacabile Padre veterotestamentario, è maledizione che ci consegna a un’esistenza insidiata dal suo Avversario («il mio nome è Legione perché siamo molti»: così si rivela a Cristo l’entità che possiede l’indemoniato di Gerasa)[42]: condizione specificamente “diabolica”, se è vero che l’etimo stesso di Diavolo rinvia, com’è noto, al greco diábolos, «colui che divide».

Ma ogni demonio non è che un angelo caduto[43]. Quello dell’Inferno dantesco, Lucifero, prima della Caduta era stato anzi, come dice il suo nome, il più luminoso degli angeli; ce lo fa capire anche la già evocata insegna all’ingresso, quando dice «dinanzi a me non fuor le cose create / se non etterne, e io etterno duro». L’inferno si origina, dunque, proprio dalla caduta di Lucifero, ed è essa che dà inizio alla storia: prima, nell’eternità, esistevano solo le materie pure degli angeli, dei cieli e degli elementi. Si può dire insomma che il Diavolo sia un Angelo travestito: o meglio, a sua volta travisato. Ce lo insegna anche la simbologia di Pazuzu, il demone dei venti della mitologia mesopotamica che per tanto tempo ha ossessionato Cuoghi.

È sintomatico che in diverse interviste Cuoghi insista – come a voler convincere in primo luogo sé stesso – sull’ambivalenza della figura di Pazuzu. Il gesto che compie con l’avambraccio rivolto verso l’alto gli sembra «un gesto magico e un modo di pregare»[44], mentre in seguito (in occasione di una mostra all’Hammer Museum di Los Angeles, all’inizio del 2011, dove è stata esposta una versione di Pazuzu in marmo, grande la metà di quella di Rivoli) ha provveduto a realizzare materialmente tale ambivalenza, come ha spiegato a Michael Slenske: «deriva dallo stesso modello, ma moltiplicato per due, l’uno collocato di fronte all’altro e fuso col suo doppio. Questo significa che coincide con ogni sua rappresentazione, e le religioni si basano proprio sul rifiuto di questo principio – anzitutto attraverso i comandamenti, che sono una serie di divieti. Ma ogni divieto, in fondo, non è che il riconoscimento del valore che nega. Dunque questa scultura può essere il modo più semplice di mettere in questione il suo significato originale. Che succede quando un amuleto non ha un verso ma due? Come può lo spirito di un demone essere univoco, quando esso viene fatto fondere con sé stesso?». In altri termini: se il Diavolo è un Angelo travisato in quando diviso da sé stesso, se si raddoppia il Diavolo lo si fa tornare alla sua natura benigna. Un esorcismo per via omeopatica, diciamo. Di ciò, in ogni caso, Cuoghi si dice convinto: «Pazuzu è un demone che purifica. È piuttosto ironico che abbia finito per diventare il Diavolo dell’Esorcista, perché Pazuzu in effetti sarebbe lo strumento perfetto per un esorcista»[45].

Mentre consumiamo il pane di LOTTA, Cuoghi mi racconta qualcosa della sua adolescenza e prima giovinezza, prima di arrivare a Milano ed entrare a Brera. A quel tempo era già un lettore compulsivo, ma soprattutto un appassionato di cinema. E la sua favola d’identità, allora, era Simon del deserto di Luis Buñuel (1964). Avrei dovuto immaginarlo. Forse nessuno meglio di Cuoghi incarna attualmente una funzione, sempre esistita[46] ma che oggi raccoglie sempre più numerosi (e qualificati) adepti: quella dell’artista come eremita[47]. Che si raccoglie in un più o meno accigliato isolamento, in più o meno implicita polemica nei confronti dei riti di socializzazione e della mondanità sempre più esteriore, pubblicitaria appunto, che regolano il «sistema dell’arte» nel tempo della sua turbo-finanziarizzazione[48]. Ispirato alla figura di Simeone Stilita (390-459), che visse per 37 anni in cima a una colonna nei pressi di Aleppo, nella Siria settentrionale, e il cui esempio venne poi seguito, per circa un secolo, da una serie di eremiti che vennero per ciò detti stiliti, il Simon di Buñuel rifiuta il sacerdozio che gli viene offerto dai monaci suoi ammiratori sostenendo di non esserne degno, ma è evidente la superbia di questa e altre sue professioni di umiltà; nonché la sostanza polemica della sua presa di distanze dal Secolo: «Vai in pace, figlio», dice a un giovane che vorrebbe farsi suo discepolo, «e lasciami alla mia guerra… Beato te, che non la conosci!». Più avanti afferma: «Non cediamo all’ascesi, tendiamola come un arco». Le scene clou sono costantemente accompagnate dal rullo dei tamburi di Calanda, il paese natale del regista. Per questo non si può assimilare l’apologo, come si fa di norma, semplicemente alla polemica anti-religiosa di Buñuel. In un’intervista Tomás Pérez Turrent gli chiede della vena umoristica del film, e Buñuel risponde: «Sì, c’è un po’ di umorismo nero… Negroide, se preferisce. Ma solo qualche traccia qui e là, perché in realtà il personaggio mi commuove. Mi piacciono molto la sua sincerità, la sua abnegazione, la sua innocenza». E quando gli si propone un accostamento col protagonista del suo Nazarín (1958), altra figura di religioso ascetico esiliato dal “sistema” ecclesiastico, risponde: «Ben detto: si tratta di personaggi solitari, che si mettono al margine della storia, della vita quotidiana, e tutto per un’idea fissa. Mi attirano i personaggi con idee fisse, perché anch’io sono uno di loro»[49].

L’isolamento di Simon, le sue forme estremistiche di penitenza (come lo stare in piedi, sulla colonna, su un piede solo), sono all’origine del lavoro di Cuoghi su di sé. Oltre ai tamburi più o meno militari (un suono ossessivo di tamburi fa pure da persistente basso continuo nella cacofonia “assira” di Šuillakku) l’altro leit motiv sonoro, nel film di Buñuel, è il rumore del vento. E Pazuzu, come si ricorderà, è per l’appunto il demone dei venti: al quale i popoli mesopotamici attribuivano in particolare il controllo di quelli freddi, provenienti da Nord, che portavano le febbri e minacciavano i raccolti. Prima che venisse autorizzata la scansione digitale dell’originale conservato al Louvre, nel 2007 Cuoghi aveva realizzato, del demone, una coloratissima versione “fumettistica” (Pazuzu. Progetto per il Castello di Rivoli) nella quale questo cartoon fosforescente è appollaiato, come un Gargoyle su una cattedrale gotica, in cima a una specie di colonna che riproduce il logo del Castello di Rivoli: l’artista-eremita si raffigura in stato di isolamento sul ciglio, alla sommità dell’istituzione-arte.

Non è un caso che in De Incontinentia, il libro-progetto sulla Smisuratezza, subito dopo il suo testo sul Tumore Liberato Cuoghi abbia chiamato a scrivere il sociologo Gian Antonio Gilli, al quale si deve uno studio specifico su Simeone e sulla tradizione da lui iniziata[50]. La «smisuratezza» dell’atteggiamento degli stiliti e dei monaci anacoreti, spiega Gilli, è un residuo di forme di accentuata specializzazione – e separatezza, appunto – che, comuni in antico, col tempo ci si è sempre più sforzati di assimilare al resto del corpo sociale. Oggi quel tipo di atteggiamento sopravvive nella «nosografia psichiatrica e neurologica», nelle «condotte penalmente devianti», ma anche e più in generale – secondo il sociologo – nell’«etica»: nel moderno universo utilitaristico, infatti, Vizi e Virtù «vanno sempre più sbiadendo» nel loro carattere originario. A connotare il modello “smisurato” dello Stilita sono per Gilli i caratteri della «compulsività», dell’«indifferenza verso i meccanismi societari di scambio/contraccambio», e dell’«indifferenza su chi siano i destinatari della propria azione»[51]: l’identikit perfetto dell’artista come eremita.

Ma dalla leggenda di Simon non poteva mancare l’Avversario. «Attento», si sente dire all’inizio del film di Buñuel, «ché il demonio vaga per il deserto». E infatti la mitobiografia del suo scisma dal Secolo (come quella – dalla sterminata fortuna artistica e letteraria – di Sant’Antonio abate, che lo precede di circa un secolo) è, essenziamente, la storia delle tentazioni nelle quali lo induce Satana per porvi termine. Nel film di Buñuel il diavolo si presenta nelle vesti ingannevoli, travisate, prima di una bambina all’apparenza innocente, poi d’una donna lussuriosa (è Silvia Pinal, già protagonista di Viridiana e dell’Angelo sterminatore). Simon in un primo momento riesce a scacciarla (al che la splendida donna si rivela un’orribile vecchia)[52], ma alla fine Satana si ripresenta per trascinarlo, a bordo di un aereo, nel mondo contemporaneo: in un locale notturno di New York dove Simon è costretto ad assistere alla danza sfrenata di giovani che, ai suoi tempi,  sarebbero invece stati probabilmente fra i suoi seguaci. Il rapporto fra Simon e il Diavolo è chiaramente improntato all’ambivalenza; lo dimostra il finale che Buñuel (come dirà una volta a Georges Sadoul) aveva immaginato per il suo film, senza riuscire a realizzarlo: morto Simon sulla sua colonna, il suo posto sarebbe stato usurpato proprio da Satana che, prese le sue vesti, avrebbe condotto l’umanità alla perdizione.

Quello che in specie interessa a Cuoghi, credo, è il rapporto asincrono tra l’eremita – il profeta, l’oracolo, il kamikaze del Coccodeista – e chi lo ascolta, gli si ispira, o comunque vi si rapporta. Il travisamento è effetto anzitutto di questa asincronia – di questo dislivello prospettico. Al modo in cui d’un testo profetico non si può trovare conferma che a posteriori, così il “vero” messaggio di un maestro (se poi possa darsi un messaggio che sia “vero”…) verrà compreso, semmai, solo nel futuro. Come diceva Pier Paolo Pasolini di Roberto Longhi: «si capisce soltanto dopo chi è stato il vero maestro»[53]. A questa condizione fa riferimento l’infinita aneddotica sulle pratiche di elusione dei koan buddisti, o dei rabbini ebrei (tante volte parodiate da Woody Allen; irresistibile la ripresa recente, del tema, da parte dei fratelli Coen di A Serious Man). Lo dice la voce anonima, la voce travisata di una delle versioni intermedie di Da iḍā e piṅgalā a iḍā e iḍā o piṅgalā e piṅgalā: «quando non trovi farina per cuocere il pane, quanto tutti i problemi ti cadono addosso, quando chiedi la pace ma nessuno ti sente, capisci che avere comprensione non è l’obiettivo, perché non c’è mai stata e mai ci sarà». E conferma Cuoghi, nell’ultima intervista: «Non ho niente da svelare, se non che vi auguro di fare nella vita solo scelte non lucide. Così si trova il principio dei desideri»[54].

Ispirata al principio dei desideri – ai loro oscuri oggetti – è l’opera tutta di un artista come Buñuel, fatta dunque per essere fraintesa, infinitamente travisata; e se Simon del deserto ne appare la quintessenza è in quanto opera strutturalmente, ancorché in questo caso preterintenzionalmente, “aperta” (il film non venne completato, e restò allo stadio di mediometraggio, perché durante il lavoro fallì la produzione…). L’eremita di Buñuel viene frainteso da coloro dai quali ha scelto di separarsi; ma lui stesso, a ben vedere, non può che fraintendere, travisare la propria esperienza. Alla fine Satana al reiterato, e sempre meno convinto, «Vade retro» di Simon risponde, con gesto di sfida e tono di trionfo, con quelle che sono le ultime parole del film: «Vade ultra!… è la vita, ubriacone, devi sopportarla… devi sopportarla fino in fondo!»

[1] Ma ha al suo attivo già una personale, Orizzontale / Verticale, tenuta nel ’96 al Palazzo della Prefettura della sua città, Modena.
[2] Cfr. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica [1988], a cura di Arnold I. Davidson, traduzione di Anna Maria Marietti e Angelica Taglia, Torino, Einaudi, 2005.
[3] Cfr. Peter Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica [2009], a cura di Paolo Perticari, traduzione di Stefano Franchini, Milano, Cortina, 2010. Sloterdijk parla di «antropotecnica» a partire da Regole per il parco umano [1997], in Id., Non siamo ancora stati salvati [1999], a cura di Anna Caligaris e Stefano Crosara, Milano, Bompiani, 2004, pp. 239-66, e aveva già contemplato il sistema gesuitico come capitolo fondamentale nella storia della costruzione della soggettività in un capitolo del Mondo dentro il capitale [2005], a cura di Gianluca Bonaiuti, traduzione di Silvia Rodeschini, Roma, Meltemi, 2006, pp. 92-102; ma la sua opera più recente ambisce a proporsi come rideclinazione del pensiero occidentale (e non solo) sotto la specie di «una teoria generale dell’esercizio» (Devi cambiare la tua vita, cit., p. 9). Fra gli attori fondamentali, nella sua invenzione dei propri predecessori, vanno annoverati in primo luogo Nietzsche («lo Schliemann delle pratiche ascetiche», ivi, p. 42; e tanto più significativo in quanto trasvalutando in positivo – nell’ambito del pensiero e dell’arte – il loro vettore negativo di auto-umiliazione – nell’ambito delle religioni confessionali e in particolare nel cristianesimo, com’è noto bestia nera del filosofo col martello), Kafka («l’iniziatore di una teoria negativa dell’allenamento», ivi, p. 84, in racconti come Primo dolore e, com’è ovvio, Un artista del digiuno), Hugo Ball (il fondatore del Cabaret Voltaire, e dunque del nichilismo dadaista, poi riscopritore del Cristianesimo bizantino – e in particolare della figura di Simeone Stilita – nell’opera omonima del 1923 traduzione di Piergiulio Taino, Milano, Adelphi, 2015), Wittgenstein, Binswanger e l’ultimo Foucault.
[4] Maria Corti, Principi della comunicazione letteraria, Milano, Bompiani, 1976, p. 184.
[5] Per esempio nel catalogo della prima retrospettiva organica: Roberto Cuoghi, a cura di Marcella Beccaria, Torino, Castello di Rivoli, 6 maggio-27 luglio 2008, catalogo Milano, Skira, 2008, pp. 38-41.
[6] «Tutti pronti a congratularsi / se da questa cosa tiro fuori / un lavoro che restituisca la sensazione / di vedere storto tutto / e anche tutto poco / e di fare quel che si fa diverso da quel che si vede / che la destra sia la sinistra / e il sopra sia sotto / perché dovrei? / volete forti emozioni? / saltate dall’ottavo piano / legati a un elastico / o dieci unità di PCP prima di mettervi in macchina / non so / baciate le anaconde»: Roberto Cuoghi, Pechan Horror Prism, in Id., Il Coccodeista, con un testo di Emanuela De Cecco, «Cross», 3, 1999, p. 129.
[7] Cit. in Marcella Beccaria, Roberto Cuoghi. Elogio della molteplicità, in Roberto Cuoghi, catalogo cit. della mostra di Rivoli, p. 10.
[8]  Divenuto celebre, nel 2001, per aver divorato 50 hot dog in 12 minuti; il suo record attuale, fatto segnare nel 2015, è di 110 hot dog in 10 minuti.
[9] «Il passato è una terra straniera» è la frase d’esordio di The Go-between di Leslie P. Hartley (1953), dal quale nel 1971 Joseph Losey trasse Messaggero d’amore. In Italia è stato tradotto nel 1955 col titolo L’età incerta e nel 2012, da Marilena Renda per Nutrimenti, come Messaggero d’amore.
[10] Ricollega Kinderama agli esordi del Coccodeista anche Marcella Beccaria: «ancora una volta, i miei occhi non mi appartengono; gli autoritratti e i fogli di testo che compongono la serie comportano, anche in quel caso, un avvicendamento di sguardi» (Roberto Cuoghi. The Rules of vision, in «Kaleidoscope», II, 6, aprile-maggio 2010, http://1995-2015.undo.net/it/magazines/1272010570; traduzione mia).
[11] https://www.youtube.com/watch?v=F3srR0eb-JE
[12] Laura Cherubini, Roberto Cuoghi. Liturgie e demoni, in «Flash Art Italia», 270, giugno-luglio 2008, p. 73.
[13] Il libro (Milano, Mousse, 2013) è stato pubblicato in occasione della mostra Arimortis, al Museo del Novecento di Milano.
[14] Marcella Beccaria, Roberto Cuoghi. Elogio della molteplicità, cit., p. 11.
[15] Una loro foto documentaria è riprodotta nel catalogo di Rivoli: Roberto Cuoghi, cit., p. 11.
[16] Sprinter statunitense nera, tuttora detentrice del primato del mondo sui 100 e 200 metri piani. Campionessa olimpica a Seul nel 1988, Griffith-Joyner morirà precocemente dieci anni dopo, vittima di una crisi epilettica nel sonno; da allora si è da più parti alluso all’impiego, da parte sua, di sostanze dopanti che le avrebbero causato danni permanenti.
[17] Impersonata da Max Schreck nella versione di Friedrich Wilhelm Murnau (1922), da Klaus Kinski in quella di Werner Herzog (1979).
[18] Gilles Deleuze, Lettera a un critico severo [1973], in Id., Pourparler 1972-1990 [1990], traduzione di Stefano Verdicchio, Macerata, Quodlibet, 2000, pp. 13-4.
[19] Luca Cerizza, Roberto Cuoghi. Metamorphosis and “life-sharing”; decadent humour and demon kings, «Frieze», 116, giugno-agosto 2008: http://www.frieze.com/issue/article/roberto_cuoghi/ (traduzione mia).
[20] Per esempio nella già citata intervista a Laura Cherubini, Roberto Cuoghi. Liturgie e demoni, p. 74.
[21] Il racconto della Torre di Babele è canonizzato dal libro della Genesi (11, 1-9), ma proviene dal poema sumerico Enmerkar e il signore di Aratta.
[22] Come l’eco del racconto biblico risuona nel celebre coro del III atto dell’Adelchi manzoniano.
[23] Questa e le precedenti citazioni in Giorgio Manganelli, L’ombra della Torre. Progetto di una rovina, in «FMR», 68, 1989, pp. 2-7; poi, col titolo Torre / Rovina, in Giorgio Manganelli, numero monografico a cura di Marco Belpoliti e mia di «Riga», 25, Milano, Marcos y Marcos, 2006, pp. 177-80.
[24] Acuta questa notazione di George Steiner: «nella misura in cui ogni singolo parlante usa un idioletto, il problema di Babele è assai semplicemente quello dell’individuazione umana» (Dopo Babele. Il linguaggio e la traduzione [1975], traduzione di Ruggero Bianchi, Firenze, Sansoni, 1984, p. 463).
[25] Roberto Cuoghi, Il Tumore Liberato, in De Incontinentia, cit., pp. 17-8.
[26] Cfr. Il cinema secondo Cronenberg [1992], a cura di Chris Rodley, Parma, Pratiche, 1994.
[27] Nella già citata intervista alla Biennale 2013, per esempio, esordisce dichiarando con sufficienza che, come non conoscendo il linguaggio musicale ha composto canzoni, così ora non sapendo scolpire ha realizzato una scultura.
[28] De partibus animalium, A5 645 a 17.
[29] Martin Heidegger, Lettera sull’«umanismo» [1949], a cura di Franco Volpi, Milano, Adelphi, 1995, pp. 90-2; cit. in Yorgos Tzirtzilakis, Qui est Cuoghi? Essai sur la traducibilité et l’occultisme dans l’art contemporaines, in Roberto Cuoghi, Da iḍā e piṅgalā a iḍā e iḍā o piṅgalā e piṅgalā, Dijon, Les presses du réel, 2014, pp. 12-3.
[30] Frammento 76 Diels-Kranz, in Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra, Milano, Fondazione Valla, 1980, pp. 76-7.
[31] Frammento 90 Diels-Kranz, in Giorgio Colli, La sapienza greca. III. Eraclito, Milano, Adelphi, 1980, p. 43.
[32] Giorgio Manganelli, Eraclito [1981], in Id., Laboriose inezie, Milano, Garzanti, 1986, pp. 26-30.
[33] Cit. in Roberto Cuoghi, Da iḍā e piṅgalā a iḍā e iḍā o piṅgalā e piṅgalā, cit., pp. 15-6 (traduzioni mie).
[34] Entrambe le citazioni in George Steiner, Dopo Babele. Il linguaggio e la traduzione, cit., p. 223 e p. 217.
[35] Eugenio Montale, Poesia travestita, a cura di Maria Corti e Maria Antonietta Terzoli, Novara, Interlinea, 1999.
[36] L’energia dell’errore. Libro sul soggetto s’intitola la tarda monografia su Tolstoj di Viktor Šklovskij, pubblicata nel 1981 (traduzione di Maria Di Salvo, Roma, Editori Riuniti, 1984).
[37]  Eugenio Montale, Quaderno di quattro anni [1977], in Id., L’opera in versi, a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1980, p. 608.
[38] Cfr. il paradigma di Eric J. Hobsbawm-Terence Ranger, L’invenzione della tradizione [1983], traduzione di Enrico Basaglia, Torino, Einaudi, 1987.
[39] Giorgio Manganelli, Il presepio, a cura di Ebe Flamini, Milano, Adelphi, 1992, p. 65. Il Natale è detto «farsa teologica» a p. 40 («in genere debbo dire che a mio avviso la farsa è parte non irrilevante della teologia, anche se trascurata dai tecnici»).
[40] Inf. III, 1-9.
[41] Cuoghi si sofferma a lungo su questi dettagli, che devono rivestire per lui i caratteri del rituale, anche nell’intervista a Seungduk Kim da poco uscita su «Frog Magazine», 16, ottobre 2016.
[42] Mc 5, 9.
[43] Riepiloga questa tradizione di lungo periodo (ma codificata definitivamente solo da Agostino) Harold Bloom, Angeli caduti [2007], traduzione di Eliabetta Zevi, Torino, Bollati Boringhieri, 2010. È significativo che vi si interessi, da una prospettiva dichiaratamente gnostica, colui che in precedenza aveva teorizzato come ogni atto poetico non possa nascere che da un’interpretazione deviata, un travisamento creativo (misreading) della tradizione: cfr. Una mappa della dislettura [1975], traduzione di Alessandro Atti e Filippo Rosati, Milano, Spirali, 1988. Rinvio al mio Insegnare la solitudine, introduzione alla nuova edizione di Harold Bloom, Il canone occidentale. I Libri e le Scuole delle Età [1994], traduzione di Francesco Saba Sardi, Milano, BUR, 2008.
[44] Laura Cherubini, Roberto Cuoghi. Liturgie e demoni, cit., p. 74.
[45] Michael Slenske, Prohibition Recognizes Value: Roberto Cuoghi, «Art in America», 28 gennaio 2011 (http://www.artinamericamagazine.com/news-features/previews/roberto-cuoghi-hammer-museum/; traduzione mia). Proprio Pazuzu, a quanto pare, servì da modello all’immagine del Demonio che appare nel film L’esorcista, diretto nel 1973 da William Friedkin e tratto dal romanzo omonimo di William Peter Blatty. Nell’opera di Cuoghi Pazuzu fa la sua ultima (?) apparizione con Belinda, la già ricordata statua presentata a Venezia nel 2013. Il suo aspetto, che simula una concrezione bizzarramente geomorfa, risulta dalla ripetizione di due figure fuse l’una nell’altra per 77.000 volte: una è Silen – l’arpia del manga giapponese anni Settanta Devilman – e l’altra è appunto Pazuzu, coinvolto dunque in un’ulteriore metamorfisi esorcistica.
[46] Nel citato Devi cambiare la tua vita di Peter Sloterdijk, di particolare interesse qui è ovviamente il paragrafo (pp. 443-7) «Storia dell’arte come storia dell’ascesi». Le pagine antipatizzanti (ivi, pp. 533-6) nei confronti del «sistema autoreferenziale dell’arte moderna», dello spesso non meno antipatico che geniale filosofo tedesco, vanno però intese sulla base della sua polemica contro la «cultura di massa» che, «infiltrata ovunque per via della sua vincente miscela di semplificazione, mancanza di rispetto e impazienza» (p. 446), rende il mondo contemporaneo tanto più refrattario, all’idea di una pratica artistica come ascesi, quanto più di essa bisognoso.
[47] Una linea eremitica nell’arte italiana contemporanea vedrebbe senz’altro fra i suoi archimandriti Gino De Dominicis ed Emilio Prini. Oggi la incarnano, fra gli altri, Giulio Paolini (in modo sempre più marcato nei suoi ultimi scritti: in Dall’Atlante al Vuoto in ordine alfabetico, a cura di Sergio Risaliti, Milano, Electa, 2010, p. 79: «“Teniamoci lontani dal nostro tempo, lontani da questo sociale che ci frana addosso come una montagna di nulla”, avvertiva Carmelo Bene in un’intervista di più di dieci anni fa, voce solista e solitaria espulsa dal Palazzo dell’Arte»; in L’autore che credeva di esistere (sipario: buio in sala), nel catalogo della mostra Giulio Paolini. Essere o non essere, a cura di Daniel F. Herrmann e Bartolomeo Pietromarchi, Roma, MACRO, 9 luglio-14 settembre 2014, p. 20: «Eremita o cenobita? Il ruolo (o il destino) dell’autore resta in bilico, in andata o ritorno, tra due polarità apparentemente contrapposte e inconciliabili», per poi citare l’Henry David Thoreau di Walden: «Se vuoi davvero fare qualcosa, rassegna le dimissioni»; da ultimo, nelle note a Orfano e Celibe, Belluno, Colophon, 2016, s.n.p.: «L’artista resta nel suo studio e rinuncia alla proposta indecente dell’amplificazione sociale del suo ruolo. Abdica, si apparta: lo intravediamo nell’atelier, nel luogo dove prende (o perde) la propria identità d’autore, concedendo cioè all’opera il valore primario, originale, assoluto. L’autore è muto, assente, la voce è dell’opera. Un’opera, per essere autentica, deve dimenticare il suo autore») e Claudio Parmiggiani (si veda il recente Lettere a Luisa, Arezzo, Magonza, 2016, nel quale è riportata fra l’altro, alle pp. 75-7, la lettera a Luisa Laureati Briganti del 9 dicembre 2007: «Nietzsche scrive: “chi si sente completamente in accordo con questo presente non è certo da noi invidiato, né per questa fede, né per questa parola di moda, formata in modo scandaloso”. E così Emilio Villa: “ora sarebbe arrivato il momento di lanciare questo grande ponte sul passato, che vuol dire sul futuro” […]. Né video art, né body art, né conceptual art, acephal art, squallid art, fecal art. Nessuna comic art o etnic art. Nessun tramonto, nessuna resurrezione. Nessun pennello, nessuno scalpello. […] Non l’aneddoto, il giochetto concettuale, il passatempo; non la retorica, né la stilistica, né gli stilisti, ma gli stiliti, i visionari, gli erratici, gli eretici, i mistici, i solitari; coloro che sono pieni di speranza»). Ma la figura archetipica di questa linea non può che essere indicata in Emilio Villa (il cui magistero Parmiggiani, come si vede, ricorda volentieri; si veda il catalogo della mostra da lui organizzata a Reggio Emilia, Emilio Villa poeta e scrittore, Milano, Mazzotta, 2008), il quale sintetizzava il senso della propria opera di maieuta-demiurgo nella Didascalia che nel 1970 metteva capo agli Attributi dell’arte odierna 1947/1967: «il materiale raccolto […] contempla misura e consuma la zona rarefatta dello scisma (separazione, salvezza) dall’arte nell’ultimo quarto di secolo»; ma già nel 1961 la grande poesia per Cy Twombly suonava così: «cy ci separa / dal codice, dalla tribù, / dalla confederazione, dal / vento, dal frutto […] / non nel tempo, / non verso il tempo, / non contro il tempo, / ma sotto, // sotto il tempo, giù (DOWN) / in un campo iniziativo:» (rinvio al mio testo del 1998, Mostrare gli attributi, nell’edizione ampliata di Attributi dell’arte odierna, a cura di Aldo Tagliaferri, Firenze, Le Lettere, 2008; qui anche, nel primo tomo che ripropone in anastatica il volume Feltrinelli del 1970, la Didascalia a p. 171 e Cy Twonbly, a pp. 127-8; per una ricostruzione complessiva della sua figura si veda la nuova edizione ampliata di Aldo Tagliaferri, Il clandestino. Vita e opere di Emilio Villa [2004], Milano-Udine, Mimesis, 20162).
[48] Non sono mancati, specie nella prima parte della parabola di Cuoghi, lavori ironicamente ma sostanzialmente aggressivi, nei confronti del «sistema dell’arte»: è il caso di In camera caritatis, un sito internet anonimo da lui ideato nel 1999 e attivo sino al 2006, con una lista di seimila personaggi legati al mondo dell’arte contemporanea (direttori di museo, curatori, collezionisti e galleristi) il formato dei cui nomi i visitatori del sito, assegnando loro un punteggio proporzionale, potevano arbitrariamente “ingrandire” o “rimpicciolire”; nonché dei ritratti fotografici, eseguiti a partire dal 2001, di critici, curatori e giovani artisti: dei quali mediante accurate sedute di make up Cuoghi deformò le fattezze come fossero reduci da incidenti o colluttazioni («sublimando l’impulso di prendere a pugni o ferire l’oggetto del proprio fastidio in modi più o meno invalidanti […] ironizzando sui suoi stessi istinti, li controlla con il garbo quasi femmineo di un truccatore […]. Il fastidio provato nei confronti di ciascuna delle persone si stempera in ore di sedute di trucco e ravvicinato contatto fisico che spesso portano a un miglioramento dei rapporti»: Marcella Beccaria, Roberto Cuoghi. Elogio della molteplicità, cit., pp. 14-5).
[49] Cfr. Buñuel secondo Buñuel, a cura di Agustin Sánchez Vidal, traduzione di Patrizia Volterra, Milano, Ubulibri, 1993.
[50] Gian Antonio Gilli, Arti del corpo. Sei casi di stilitismo, Cavallermaggiore, Gribaudo, 1999.
[51] Le citazioni precedenti da Gian Antonio Gilli, Smisuratezza: notizie dagli scavi, in De Incontinentia, cit., pp. 21-50.
[52] La scena verrà ripresa da Stanley Kubrick in un passaggio acutamente surreale di Shining (1980), con Jack Torrance-Jack Nicholson attratto da una magnifica donna nuda nel bagno di una stanza dell’Overlook Hotel, solo per scoprirne sul più bello le “reali” fattezze, cadenti e ripugnanti (il personaggio di Jack Torrance, che si isola fuori dal mondo con la moglie e il figlio per attendere alla stesura di un romanzo, è un’interpretazione implicitamente sarcastica della topica eremitica). Il suo archetipo può essere indicato in uno dei passi più perturbanti della Commedia dantesca, quello dell’incontro con la «femmina balba» nel XIX del Purgatorio: il Viandante s’imbatte in una donna che ai suoi occhi appare bella e dalla voce armoniosa, e che canta «io son dolce serena» / che’ marinari in mezzo mar dismago; / tanto son di piacere a sentir piena»; ma Virgilio ne strappa la veste mostrandogli il suo «ventre; / quel mi svegliò col puzzo che n’uscia»: e la sirena si mostra nella sua “reale” natura di «femmina balba, / ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, / con le man monche, e di colore scialba».
[53]  Pier Paolo Pasolini, Che cosa è un maestro [inedito del 1971], in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 1999, t. II, p. 2593.
[54]  Nell’intervista citata di Seungduk Kim su «Frog Magazine».
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