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Alfredo Aceto
In conversazione con Andrea Bellini


Andrea Bellini Alfredo tu sei nato nel 1991 e hai oggi 24 anni, sei cresciuto con internet ed in generale in un sistema dell’arte molto diverso da quello di qualche decennio fa. Mi chiedevo cosa significa per te essere un artista…

Alfredo Aceto Forse essere un artista significa trovare una legittimazione a vivere un’esistenza che altrimenti non verrebbe veramente accettata. E un po’ un modo di salvarsi in corner. Quindi in questo senso non è nemmeno troppo rilevante esserlo o non esserlo quanto il fatto che gli altri lo pensino di te.

Andrea Bellini Tu sei un artista precoce, in qualche modo il tuo ingresso nell’arte lo hai fatto quando avevi 12 anni, ne parleremo più avanti. Sono curioso di sapere che tipo di bambino sei stato…

Alfredo Aceto Da bambino mi crogiolavo in angoscianti luoghi dell’immaginario; respingevo la spensieratezza per poi ritrovarla. Ricordo pomeriggi di sole a Torino che si trasformavano sempre in questi paesaggi desertici, fumanti, schiaccianti e opprimenti. Mattinate d’inverno a Losanna in cui mi sentivo l’unico rimasto a Pripyat un anno dopo l’esplosione nucleare. Autostrade sulle quali si affacciano giganteschi HLM abbandonati alternati a giganteschi monumenti. Creavo a voce alta questi scenari ossessivi in cui mi immedesimavo in qualcosa o qualcuno e speravo, per pudore, che nessuno potesse leggere nei miei pensieri.

Andrea BelliniPer pudore?

Alfredo AcetoIl pudore è sempre stato un motore di frustrazione costruttivo perché è nel combatterlo che mi sembra di creare qualcosa. Da ragazzino disegnavo tanto e con una tecnica obiettivamente invidiabile anche se non ho mai veramente creduto nelle mie capacità manuali. Sono cose che tutti possono imparare ma se non sei predisposto è inutile forzare la mano. E poi ciò che realmente mi attirava era perdermi in quella nevrosi che ancora oggi cerca di intrappolarmi quando meno me l’aspetto.
Spesso ho cercato di nascondere il mio modo di essere dietro ad un aspetto “normale”, anche nel vestirmi esattamente come tutti gli altri. Un golf blu e una camicia bianca per passare inosservato e continuare a perdermi laggiù in quei mondi fatti di sottoscala e di quelle che saranno le rovine del secolo prossimo.
Il primo anno di università mio nonno mi manda a studiare le tecniche mnemoniche di Stanislaus Mink Von Wannsshein per provare a passare qualche esame. Mi insegnano ad associare ogni cifra ad un suono. Ogni numero corrisponde a una consonante (ad esempio se il 3 corrisponde a “M” e il 7 a “CH”, per ricordare il numero 37 puoi trasformare “M” in “AMO” e “CH” in “OCCHIO” , poi ti immagini un occhio infilzato da un amo da pesca e il gioco è fatto). All’epoca ero affascinato dai tic nervosi, alcuni invisibili dall’esterno, così mi venne naturale associare ogni numero a un diverso tic.
Ricordo una volta visitai una mostra di oustider artists che mi fece così paura da volerne uscire subito; mi sembrava di aver vissuto tutte quelle vite così contorte o forse avevo paura che ne avrei vissuta anche solo una di quelle. Inconsciamente mi rifugiavo dentro quel golf blu per togliermi dalla lista dei sospetti.

Andrea BelliniInsomma sei stato un ragazzino introverso, un poco solitario e con un ricco corredo emozionale, direbbero gli psicologi. Mi fai venire in mente quanto scriveva Aldo Busi: “l’unico vero amico d’infanzia sei tu per te stesso, solo lui può capirti, solo lui conosce il percorso che hai fatto per congiungerti con te”.

Alfredo AcetoSi in qualche modo è cosi. Ho sempre il terrore che qualcuno si accorga del casino che ho in testa e che mi vieti per sempre di nascondermi, ma questo non penso possa succedere nel mondo dell’arte, ecco perché qui si può dire tutto, ecco perché è rassicurante stare qui.
Forse il mondo dell’arte mi ha affascinato per questo! Mi sembrava un buon posto per depositare le mie ossessioni e commutarle, private da ogni sospetto, addirittura in una professione: l’artista!
In realtà non penso di apprezzare veramente le mostre o meglio non credo di essere interessato alla modalità con le quali vengono pensate. Mi pare un’attività perversa condotta da persone buone.
La prima volta che vidi Sophie Calle in televisione rimasi sbalordito perché mi sembrava che anche lei stesse utilizzando il mondo dell’arte per travestirsi in qualcosa di meno problematico.
In fondo, forse questo essere artista garantisce solo un modo più rassicurante di guardarsi allo specchio la mattina.
Forse tutta la discussione attorno all’artista per me è un po come quel golf blu.

Andrea Bellini Perché dici che fare le mostre ti sembra un’attività perversa?

Alfredo Aceto Primo perché nella maggior parte dei casi manca effettivamente un vero pubblico. La mostra viene prodotta dal mondo dell’arte per il mondo dell’arte.
Secondo perché spesso le mostre non scaturiscono da necessità psicofisiche dell’artista ma da motivi sociali e di branco…

Andrea Bellini Si hai ragione: le mostre, soprattutto quelle collettive,  nascono e abortiscono per le ragioni piu’ diverse. Ma torniamo a te. Avevi 12 anni quando hai scoperto Sophie Calle giusto?

Alfredo Aceto Si, guardando un documentario in TV.

Andrea Bellini Questa tua storia con la Calle l’ho sempre trovata interessante e indicativa: un bambino di 12 anni che sviluppa una sorta di ossessione per un’artista contemporaneo, ed in particolare proprio per Sophie Calle, dopo averla vista in televisione.  A dirti il vero trovo questa storia interessante perché fa di te un sommo caso patologico (ride), e a me interessa molto il patologico. Cosa ti ha colpito del suo lavoro e della sua storia? Ti ricordi  quel documentario?

Alfredo Aceto Ricordo bene quella notte di febbre passata davanti alla televisione. A un certo punto capito sul canale ARTE dove trasmettono un documentario su questa signora e il suo appartamento. Non si intuiva nemmeno fosse un’artista ma ne rimasi comunque folgorato. Era una donna, era una donna indipendente, era una donna forte che sembrava volesse insegnarmi qualcosa già dal quel televisore. L’ossessione nei suoi confronti prendeva piede e come in molti casi ossessivi, le sue caratteristiche mutavano nella mia mente trasformandola da donna a figura pressoché mitologica dei miei racconti privati.
Penso che tutti gli sforzi conseguiti per riuscire a incontrarla nonostante la mia giovane età siano quasi irrilevanti rispetto all’energia che ho sentito quella notte. Fu davvero una visione, un’apparizione.
In quel periodo così come oggi ero molto attratto dai luoghi deserti, dalle città abbandonate e da quegli spazi tanto carichi di memoria quanto vergini nel presente e mi sembrava che questa donna potesse essere uno dei personaggi di quei mondi.
Molti si sono interessati alle rovine dei nostri giorni portandone una visione d’archivio e di documentazione ma per quanto mi riguarda, ciò che mi ha sempre affascinato in questi spazi di rovine è la possibilità di giocare con il passato inventandosene un altro. Sono luoghi dove il passato si mescola al presente quindi modificando il secondo, si modifica inevitabilmente anche il primo.
Sophie la immaginavo scolpita in un monumento in mezzo alla foresta rossa, la “costruivo” facendo ricerche su di lei con la stessa metodologia con cui costruivo la città di Pripyat. Era un approccio quasi architettonico al suo personaggio; come se si trattasse di un puzzle o di una statuetta, ogni elemento mi permetteva di creare una nuova dimensione che si potesse poi rapportare con me. Io faccio parte di una generazione dove i Maestri sono mancati e quindi bisognava crearseli, inventarseli da sé. E stato un pezzo della mia vita, a volte tormentata ma mi ha certamente consentito di crearmi nel tempo una solidità che alla mia età non sarebbe forse stata possibile.
Trovo intrigante il rapporto che lega ciascuno di noi con il proprio passato e con i diversi passaggi generazionali ma la cosa che più mi interessa e trovare la modalità per sovvertire tutto questo. Spesso faccio scelte che mi permettono di giocare, invertire e rovesciare l’ordine degli eventi nel tempo interrompendo la cronologia delle “fasi della vita”.
Mi piace incominciare dalla fine, pensarmi stanco quando sono già riposato, iniziare una scuola d’arte dopo aver fatto le prime mostre per poi prendersi un periodo di pausa subito dopo, quando tutti espongono. Sono piccoli modi per continuare ad essere consapevoli in un mondo dove i limiti sono sempre più confusi e dove i bambini diventano subito adulti mentre gli adulti rimangano sempre più a lungo bambini.
Spesso oppongo il mio rapporto con Sophie Calle a quello con l’architettura e lo spazio. Entrambi sono nati durante l’adolescenza e per quanto possano sembrare due visioni completamente diverse, per me sono semplicemente due facce della stessa medaglia.
Quando hai dodici o tredici anni vivi da un lato la strada, l’urbanità e il desiderio di appartenenza che io raffiguravo con città totalmente disabitate; e dall’altro c’è la camera da letto-torre di controllo che diventa quasi un luogo di autismo consapevole. E dalla camera che ho iniziato ad affacciarmi al mondo dell’arte, da quel computer e da quelle riviste.

Andrea Bellini Stavo pensando che forse la tua è la prima generazione di artisti che non si avvicina all’arte tramite l’incontro con un’opera o un’immagine stampata ma attraverso uno schermo, quello del computer o addirittura nel tuo caso quello della televisione.

Alfredo Aceto Sicuramente, questo credo comporti un grande rischio che è quello dell’appiattimento e la sparizione delle ossessioni. Per proteggersene bisogna tenere d’occhio il rapporto che esiste tra la mitologia che un artista o il suo lavoro hanno e la loro esistenza appunto sugli schermi come dici tu.
Non tutti gli artisti fanno opere fotogeniche quindi può risultare molto complicato capire realmente le cose ma trovo anche interessante che oggi ci sia sempre più gente che forma il proprio giudizio su immagini che, non essendo rappresentative dell’ecosistema dell’artista, deviano completamente la realtà delle cose.

Andrea Bellini Mi viene da fare una considerazione ulteriore: in questo momento sembra che l’opera d’arte, nella sua esistenza concreta, stia perdendo la famosa aura di cui parlava Benjamin. L’aura sembra essersi trasferita proprio nelle immagini, attraverso queste costruiamo la nostra esperienza, il nostro discorso, il nostro giudizio. André Gunthert parla di “image conversationnelle”, nel senso che ormai non produciamo le immagini per conservarle o per riprodurre il mondo ma per inviarle, per condividerle, per produrre una conversazione costante. Le condividiamo e poi le dimentichiamo a memoria….

Alfredo Aceto Penso che da un lato molti credano che le immagini siano ormai tutto e che sia sulla base di queste che si possa costruire un’opinione, ma sono più favorevole a pensare che questa saturazione abbia portato all’annullamento. Viviamo in un deserto di immagini… che ce ne siano troppe o troppo poche alla fine è uguale. Ed è in questo deserto che continuano a crescere, ogni tanto, bellissime storie che se ne fottono un po’ della loro rappresentazione.

Andrea BelliniDiciamo che nel grande deserto delle immagini tu hai incontrato Sophie Calle in televisione! E poi cosa è successo una volta che l’hai spenta?
Come sei entrato in contatto con lei? Cosa volevi chiederle?

Alfredo Aceto Non sapevo che cosa cercavo anzi ricordo proprio che una volta al telefono mi chiese cosa volessi dalla sua vita e non seppi cosa rispondere.
Penso che se si potesse guardare la cronologia degli ultimi dieci anni dei miei computer troveresti pochissimi argomenti cercati un’infinità di volte. E colpa di quell’insaziabile voglia di conoscere tutto che ti porta anche mal di stomaco. E un po’ la stessa modalità con cui cerco di entrare nelle mie mostre o nei miei progetti, anche li cerco di chiedere qualcosa a qualcuno più che a me stesso. Chiedo così tanti consigli che a volte mi pare di non avere idee mie, ma poi mi tocca aspettare il momento in cui riesco a decidere da solo!

Andrea Bellini Quali sono questi argomenti che hai cercato sul web un’infinità di volte? Fammi un elenco sincero delle cose che hai cercato sul web negli ultimi dieci anni.

Alfredo Aceto

  1. Pripyat
  2. Sophie Calle
  3. Toyota Previa 1995
  4. Aubrey De Grey
  5. Paquebot France/Norway
  6. Ghost Towns
  7. Cucuteni-Trypilian
  8. Subaru Forester
  9. Cimetière de bateaux Lorient
  10. Carlo Mollino

Andrea Bellini Avrai omesso i siti porno immagino. Di Pripyat, la città abbandonata parliamo dopo. Sophie Calle va bene, ma spiegami Toyota Previa 1995? Perché questa macchina?

Alfredo Aceto Sono sempre stato attratto da alcuni modelli di automobili e, più precisamente, da alcuni dettagli che penso siano insignificanti addirittura per chi le ha disegnate.
Isolare un modello di automobile dal suo mondo, dargli una speranza di vita maggiore quasi fosse un monumento. Fin da bambino e ben prima di conoscere l’arte ho avuto in testa l’immagine di una Toyota Previa scolpita nel marmo di carrara.

Andrea Bellini  Non so ma a me sembra che questo tuo legame affettivo con la Toyota Previa sia un altro aspetto del tuo carattere melanconico…

Alfredo Aceto Si assolutamente. Le automobili sono segni evanescenti di tragitti evanescenti di epoche che finiranno. Sono oggetti per i quali si lavora anni ma che hanno in media una durata di vita estremamente bassa. Alcuni modelli acquistano valore nel tempo e questo a mio giudizio ne toglie uno strato di straordinaria decadenza. Una Toyota Previa del 95, con le sue forme tondeggianti, non interessa proprio più a nessuno. Allora lo sforzo di scolpirla in un blocco di marmo mi pare possa darmi la possibilità di tornare a quei tempi… un ibrido tra la maquette e oggetto vero e proprio!

Andrea Bellini Invece Aubrey De Grey è uno strano personaggio che crede nell’immortalità giusto? Uno che combatte l’invecchiamento… Ancora il tempo…

Alfredo Aceto Nel rapporto con il tempo sono più interessato dall’interruzione e dalla sovversione della cronologia piuttosto che dal combattere l’invecchiamento. Ma prima di tutto mi interessa Aubrey De Grey come “icona in via di sviluppo”… tra la gente comune pochi lo conoscono eppure ha tutte le caratteristiche per diventare una figura mitologica dei nostri tempi. Trovo interessante il rapporto che io e mio padre, che ne ha fatto il ritratto, intratteniamo con la sua immagine

Andrea Bellini Perché parli di icona in via di sviluppo? Quale rapporto intrattenete tu e tuo padre con la sua immagine?

Alfredo Aceto Mio padre l’ha disegnato con il carboncino da una fotografia. Aubrey mi manda delle mail in cui acconsente a farsi ritrarre ma dove comunica ciò che vorrebbe che il ritratto emanasse.
Infine, mio padre ha rimpiazzato uno dei suoi due occhi con uno mio!
Icona in via di sviluppo perché è una persona e non un simbolo. Alcuni individui non riescono più ad essere considerati per la loro storia ma solo per la loro aurea che sovrasta tutto il resto. Penso che lui non vorrebbe finire lì dentro… Se guardi il ritratto senza sapere chi l’ha realizzato allora attribuisci un grande peso al soggetto e contribuisci alla creazione dell’icona! In qualche modo, fai compiere una metamorfosi forzata a quell’individuo cambiando il tuo sguardo.I guess the main thing I would suggest to your father is that the portrait should convey how tragic it is that people get sick as they get older. It should convey that this is a terrible waste of human capital, and that the world would be so much better if people continued to be fully functional and able to continue to enrich each other’s lives rather than becoming a burden on their families and on society.Cheers, Aubrey

Andrea Bellini Wow….L’eternità è lunga, soprattutto verso la fine! Diceva Woody Allen. Torniamo alle tue ricerche sul web. France/Norway è un transatlantico mitico decorato dagli artisti della scuola di Parigi. Ti interessa per questo?

Alfredo Aceto Penso che la cosa che mi interessava in questo gigante del mare fosse l’inutilità che acquistava con il tempo. Prima che lo demolissero seguivo attentamente le proteste che erano fatte per salvarlo perché molti francesi lo vedevano come un simbolo. Era effettivamente un simbolo! Era uno degli ultimi monumenti alla francesità… un altro l’ho visto a Gerusalemme dove sotto ad una pubblicità di una Citroen scrivono “Vivez Comme Un President”. Questo rapporto al potere, alla grandezza e alla decadenza è fascinosamente francese.

Andrea Bellini  Si è molto francese in effetti. Ghosts town è legato a Pripyat dunque ci sono. I Cucuteni-Trypilian è una popolazione neolitica giusto? Non ne so molto. Perché ti interessa?

Alfredo Aceto La cultura dei Cucuteni-Trypilian, Cucuteni per i Rumeni e Trypilian per gli Ucraini, si sviluppa nel tardo neolitico sui territori dell’attuale Romania e Ucraina.
I disegni e le sculture dei cucuteni mi hanno sorpreso per la loro vicinanza con disegni che mio padre ha realizzato da giovane. Mostri dalle forme bizzarre, quasi sovrappeso e poi i disegni sulle ceramiche…
Mi piace pensare che sotto Pripyat, nel 4000 a.C. c’era gente che disegnava come mio padre.
Pripyat è stato un po’ un punto di partenza quindi mi interessa compiere due viaggi speculari nel tempo … uno verso il passato di quel luogo da me “eletto” e l’altro, il mio viaggio, verso il futuro. Forse solo uno spazio espositivo può unire questi due percorsi uniti ma opposti.
Ronald Chesser, un biologo del politecnico di Lubbock sostiene che se l’uomo scappasse dal pianeta terra, la natura impiegherebbe solo qualche decina di migliaia di anni per cancellare ogni traccia del nostro passaggio. Se si prende Pripyat come “maquette” di un’ipotetica estinzione di massa, allora le sculture dei Cucuteni tornano all’attualità come le zanne dei grandi mammiferi alla fine dell’ultima era glaciale.

Andrea Bellini Mi hai detto più volte che tuo padre è un grande disegnatore. Mi fai pensare ad Andrea Pazienza che parlava sempre di suo padre come grande acquarellista. Per Andrea il padre fu fondamentale: il contatto con la natura, la caccia, l’avventura e l’arte. E tu che tipo di rapporto hai avuto con tuo padre?

Alfredo Aceto Mio padre è l’anello che mi lega alla casa di Moncalieri, centro importante per me. Ha fatto scelte diverse dalle mie fin da giovane ma credo di avere molti dei suoi tratti caratteriali. Forse cerchiamo le stesse cose ma in due mondi completamente lontani.

Andrea Bellini E la Subaru Forester è un’altra brutta macchina no? Perché fai ricerche continue su questa macchina?

Alfredo Aceto E un altro feticcio!

Andrea Bellini Mentre il Cimetière de bateaux Lorient, credo ti interessi per via della tua passione per le cose abbandonate e in rovina, per un mondo dystopico. Come tutti i veri melanconici sei attratto da ciò che è stato e si dissolve?

Alfredo Aceto Si… ma vorrei essere in grado generare da solo qualcosa che “è stato e che si dissolve”. Sarebbe una grande tristezza esserne il fautore ma al contempo la tentazione di sprofondare nella malinconia è irresistibile… la creazione di una “macchina da malinconia”.

Andrea Bellini Si in fondo a pensarci bene tu sei proprio questo, una specie di macchina da malinconia…

Alfredo Aceto …che manutengo con grande cura.

Andrea Bellini Carlo Mollino è un genio torinese, ma lui ha influenzato tanti artisti per cui su di lui non ti chiedo niente e lasciamo a chi legge l’intervista la missione di capire chi è stato questo grande irregolare dell’architettura italiana. Ma torniamo a Sophie Calle, con lei non ti sei limitato a fare delle ricerche, sei diventato una specie di stalker, magari si è spaventata!

Alfredo Aceto Una volta mi spacciai per l’assistente di Ida Gianelli, allora direttrice del Castello di Rivoli, per attirare la sua attenzione ma non funzionò. Ero intrigato anche dalla figura di suo padre, Bob Calle, quest’oncologo e collezionista parigino che scriveva libri su Christian Boltanski. Provavo a dirle che stimavo suo papà ma anche lì non era molto interessata. Ricordo un venerdì sono uscito da scuola e ho preso il treno delle 17 per Parigi. L’indomani mattina mi apposto davanti a casa di Sophie a Malakoff e aspetto che esca la sua “Autobianchi Bianchina” dal garage. Ne uscirà solo una Bentley nera opaca dopo due ore.

Andrea Bellini Quanti anni avevi quando sei andato a Parigi?

Alfredo Aceto Penso sedici.

Andrea Bellini E poi sei riuscito a incontrarla. Cosa ricordi del vostro incontro? Come è andata la storia dei due tatuaggi?

Alfredo Aceto A luglio ero seduto sotto un albero nella casa di Moncalieri. Giornate di grande solitudine.
Chiamo Sophie per l’ennesima volta ma con più motivazione. Le chiedo un appuntamento preciso e me lo fissa sei mesi dopo dandomi già l’orario.
Ero già passato davanti a casa sua in perlustrazione e l’architettura di quel palazzo diventava mistica per me. Dal satellite vedevo che c’era un grande prato dentro mentre dalla strada si vedeva solo una grande facciata di un’industria riconvertita. Mille volte ho immaginato e scritto su cosa potesse esserci dentro quindi la cosa che ricordo di più è la scoperta del luogo.
Da li è nata in me un’urgenza che non ho ancora potuto sperimentare molte volte ovvero lavorare nell’obiettivo di creare un ecosistema dentro al quale si può penetrare grazie ad un elemento fortuito. Le automobili che entrano ed escono dal garage fungono da esca ad esempio.
I tatuaggi… volevo un pezzo di lei che mi servisse a crescere come quella pianticella che da bambino avevo legato a dei bastoni in legno dopo che qualcuno l’aveva calpestata. Lei non era entusiasta della mia idea ma acconsentì di farmi portare la sua firma sul braccio per sempre. Il secondo tatuaggio è la scritta “c’est fini”. Da quel giorno è come se avessi tagliato i laccetti che mi tenevano legato al pezzo di legno.

Andrea Bellini E come è andata a finire la storia? Cosa ti ha dato la Calle?

Alfredo Aceto È andata a finire che sono fuggito in Alaska da Paola Pivi per dimenticarmi di Sophie. Me lo aveva suggerito uno psicologo che, quasi come battuta mi disse di trovarmi un’altra artista donna di cui però non fossi particolarmente interessato, e di spenderci del tempo insieme. Questa storia è molto ancorata alla realtà e alla vita, non c’è finzione.  Ma il modo di vivere quel periodo mi ha portato in qualche modo a voler trasformare ciò che ho davanti ai miei occhi in qualcosa a più alto contenuto emotivo. Mi piace pensare che il mio lavoro possa essere una forma di lente di ingrandimento per vedere da vicino il tessuto umano e ossessivo delle persone quasi si trattasse di anatomia.

Andrea Bellini Anche per Paola Pivi hai avuto una sorta di ossessione. Cosa ti ha interessato del lavoro della Pivi?

Alfredo Aceto Ho promesso a Paola che non avrei parlato troppo di quello che ho vissuto stando in Alaska quindi cerco di limitare le risposte. Non sono mai stato ossessionato da lei e spesso abbiamo avuto delle frizioni. Mi ha insegnato parecchio in termini di rigore nel pensare. Forse la cosa più interessante è stata farmi capire che anche il caffè la mattina devi prepararlo al massimo delle tue capacità. Sembra una cazzata ma non molti si attengono a tanta precisione.

Andrea Bellini Perché secondo te hai sviluppato questo tipo di rapporto ossessivo con due artiste donne? Perché delle figure femminili?

Alfredo Aceto Mio padre dice sempre che quando pensi di essere malato ti ammali subito. Così ho sempre evitato di cercare le origini del presente nel mio passato. Sotto un certo punto di vista quest’attitudine ti permette di essere sempre sorpreso da ciò che diventi.
Io sono un grande fautore del “fai da te”, anche perché quando inizi davvero giovane non è che hai tutte le residenze e la gente del mondo dell’arte che sta li ad aspettarti quindi ti rimbocchi le maniche e ti arrangi. E credo che sia così che nascono situazioni surreali in cui si sviluppano rapporti ossessivi.

Andrea Bellini E da quando frequenti questo tuo psicologo? Per quali ragioni hai deciso di andarci?

Alfredo Aceto Non è una cosa che faccio spesso. Ci ero andato in quel periodo ma più per capire come procedere con quella storia che era la mia vita in quel momento. Non ero particolarmente interessato dai motivi che mi portavano alle ossessioni quanto più sul come farle evolvere.
Mi piace far entrare certe persone nella mia vita e dare loro il timone per qualche istante. L’ho fatto con i fumettisti che hanno interpretato la mia vita, l’ho fatto con Roberto Cuoghi, l’ho fatto con Gianni Vattimo e con altri ancora… anche con te in un certo senso. Da quando sono qui a Ginevra spesso abbiamo delle discussioni in cui tolgo quelle barriere che in genere mi servono ad evitare intrusioni.
Alla fine tutto questo è un grande viaggio senza tempo dove la prima mostra la puoi fare prima di iniziare la scuola, dove la storia d’amore più bella forse l’hai vissuta a sedici anni, dove è tutto un caos che però ti da quell’energia da condividere con altri.

Andrea Bellini Quindi definisci la storia della Calle come una storia d’amore….Com’era la casa della Calle?

Alfredo Aceto No non è una storia d’amore. La casa mi sembrava davvero un impenetrabile tempio egizio. Nel garage quattro automobili tra cui la mitica Autobianchi Bianchina di colore bianco (ora è rossa dopo aver subito un incidente nel 2011). Il prato all’inglese, delimitato da questo capannone ristrutturato con grandi vetrate luccicanti ti accompagna alla porta di ingresso dalla quale si rivela un mondo fatto di centinaia di oggetti. Un collo di giraffa imbalsamato sta sul muro di fronte alla porta. Avevo visto delle immagini della casa su internet e ricordo che non appena entrato cercai di individuare gli oggetti che mi erano rimasti impressi. La ricerca di questa doppia temporalità mi tormenta di continuo!
L’altro giorno, visitando la casa di Carlo Mollino a Torino ho provato una sensazione simile. Sono luoghi artificiali in cui ogni elemento contribuisce a delimitare un mondo vero, un universo che ha un senso per chi lo ha creato ma anche per chi vuole viaggiarci.
Una delle cose che oggi mi interessano di più è proprio la possibilità di condurre una ricerca assolutamente personale e intima che possa però sfociare in un mondo nuovo. La mostra di Emanuel Rossetti alla Kunsthalle di Berna mi ha in qualche modo evocato questa “libertà disciplinata”.

Andrea Bellini Cosa hai amato di quel pomeriggio?

Alfredo Aceto Gli occhiali da gatto!

Andrea Bellini In fondo il tuo accesso nel mondo dell’arte avviene attraverso l’infatuazione che hai avuto per delle persone in qualche modo famose, per quanto possa essere famoso un artista contemporaneo. Cerchi il successo nell’arte? Qual’è la forza che ti muove?

Alfredo Aceto Per me successo e arte sono legati come responsabilità e potere. La responsabilità senza il potere che ne consegue crea un problema così come il successo di un artista senza l’autenticità dell’arte crea un problema. Io vedo nel successo un’opportunità come un’altra per poter condividere delle urgenze con più persone. Ciò che penso sia grave e malato è cercare il successo anziché cercare l’arte.

Andrea Bellini Perché oggi sei arrivato qui nel mio ufficio con una cravatta Marinella?

Alfredo Aceto Ho come l’impressione che più che appartenere alla prima generazione che ha visto le opere d’arte dal computer, appartengo all’ultima generazione che ha conosciuto la malinconia. Il feticismo degli oggetti e la storia legata ai tempi e ai personaggi sono capitoli secondo me chiusi con gli anni Novanta. Marinella è uno di quei simboli. E come la marca di automobili Simca, è come la montagna di Sainte Victoire meravigliosamente descritta da Jacqueline De Romilly.

Andrea Bellini Quindi perché regalarla a me?

Alfredo Aceto In genere faccio regali alla gente che mi sta simpatica quindi la risposta sembrerà una sviolinata… pazienza! Ma credo di vedere in alcuni tuoi atteggiamenti un certo fascino verso l’attimo passato… verso quella cosa fuggita via cosi veloce da volerla inseguire. Si tratta forse di malinconia più coscienziosa ed esercitata… ma anche un po’ tormentata! Marinella è un simbolo a cavallo tra il c’è e il c’era ed è in quel territorio che mi piace incontrarti.

Andrea Bellini Le cravatte e i calzini per me sono  un vezzo inutile, attraverso il quale affermo di non credere a niente. Ho resistito dal riempirmi di tatuaggi, farmi crescere la barba lunga e comprare delle Nike nere come hanno fatto praticamente tutti quelli della mia generazione (e diverse successive). Mi godo in solitaria altri piaceri. Per il resto io nutro una curiosa malinconia per il presente, per quello che vivo e perdo costantemente.

Alfredo Aceto La resistenza ai codici è una cosa che mi ha sempre affascinato. Fino ad ora li ho sempre rifiutati anche io ma per conto mio l’ho fatto per incapacità di diventare altro… imbarazzo… pudore con me stesso.
Anche io soffro di malinconia per il presente ed è forse per questo che mi interesso nel tempo a vicende o oggetti che non sembrano avere una particolare rilevanza. E un modo di restare legato ad un momento preciso che è andato perso.
Nel 1998 mi ricordo venne uccisa la ricca vedova di Dreyfus, Suzie Mostberger sull’isola di Moustique. Le indagini vengono interrotte immediatamente e l’autopsia non viene fatta, il colpevole nessuno sembra andarlo a cercare. Non so perché quella notizia mi rimase impressa in mente malgrado non conoscessi nessuno di collegato a quella faccenda. Cosi, sempre in età precoce, sono andato a Strasburgo a cercare i nipoti di Suzie e chiedere approfondimenti sulla vicenda. Tutti avevano la bocca cucita.
La settimana successiva trovo un nipote più chiacchierone che dopo essersi fatto convincere  mi racconta chi ha ucciso sua zia chiedendomi, anche per la mia incolumità, di non ripetere a nessuno chi fosse stato il mandante.
Probabilmente tutto questo è servito solo a far durare un po’ di più quel febbraio del 98 in cui provavo purtroppo la frustrazione di essere troppo piccolo per poter essere consapevole.

Andrea Bellini Wow questa storia è anche più inquietante di quella della Calle. Penso che tutti abbiano delle strane fantasie riguardo la cronaca nera. Ma tu passi anche all’azione. Ti muovi, indaghi, incontri. Cos’è questa una sorta di necessità fisica? Una coazione a ripetere?

Alfredo Aceto Si è una necessità forte e compulsiva. E come se muovendomi, indagando e incontrando riuscissi ad essere più vicino ad un punto preciso nel tempo. Tutto inizia a ruotare attorno a quel preciso momento passato che si mescola con il presente. E un sentimento di cui mi nutro.

Andrea Bellini Come fai a dire che la tua sia l’ultima generazione ad aver conosciuto la malinconia? Quale potrebbe essere un ipotetico vostro obbiettivo generazionale?

Alfredo Aceto Le mostre mi sembrano dei mondi che si definiscono tramite sparizioni e apparizioni quasi fantasmagoriche. Ma non penso si tratti di fantasmi legati unicamente al racconto bensì alla diversa temporalità che si è creata tra realtà e finzione, tramite il virtuale. Questo fosso che separa il mondo dalla sua immagine mutevole e arbitraria è probabilmente la molla che mi spinge ad andare avanti.
Tutto questo modifica radicalmente la percezione del tempo, delle persone intese come personaggi, dei paesaggi e soprattutto del valore che l’immagine possiede o non possiede più. Se dovessi pensare ad un obbiettivo che la mia generazione potrebbe porsi credo che questo sarebbe la testimonianza delle informazioni che andranno perdute in questa fase di transizione. Il ricordo della perdita piuttosto che il tentativo di ricordare.
E un po come se si trattasse di un intervallo tra due ere diverse in cui il passato viene letto (o sorvolato) con nuovi strumenti mentre il futuro è troppo lontano per accoglierci. Sophie Calle potrebbe essere una regina egizia così come una ragazzina che gioca sotto casa mia e nulla cambierebbe al racconto. Penso si tratti della travagliata storia della fine di tante epoche che mi spaventa quando penso a come si può ritrovare delle premure generazionali e contemporanee più consistenti.

Andrea Bellini Un ecosistema… composto di cosa?
Cosa vorresti dire attraverso questo ecosistema? Ti faccio questa domanda perché a dire il vero fino ad oggi i tuoi lavori sembrano nascere ogni volta da pretesti diversi…

Alfredo Aceto Penso a una mostra che non sia basata sull’idea di una realtà univoca né sulla sua rappresentazione ma piuttosto come un insieme di elementi che interagiscono tra loro e con l’ambiente che li circonda. Un luogo dove l’ossessione di un istante si dilaziona nel tempo mantenendo l’intensità che la contraddistingue. Un luogo di cui bisogna appropriarsi durante l’esperienza quasi si trattasse di un territorio geograficamente inesplorato sul quale mettiamo i piedi per la prima volta e dove siamo costretti a rimanere per un certo lasso di tempo. Questo insieme che chiamo ecosistema si determina sistematicamente tramite il riaffiorare di storie passate, di idee persistenti, ossessive e di elementi che ne determinano la cornice.
E un modo di svincolarsi dalla pretesa di mostrare il punto di arrivo del processo creativo privilegiandone l’esperienza, ma anche il rapporto con la mitologia di un passato recente, l’infanzia e l’adolescenza come stati di crisi che permettono l’amore e l’odio simultanei per la stessa cosa. Talvolta ho l’impressione di essere l’ultimo testimone di un magazzino pericolante. Al suo interno, ci sono storie dettagliate e cronologicamente ordinate. Ma oggi quell’ordine e quella cronologia non hanno più la stessa importanza, o meglio, non mi pare si riescano più a percepire con la stessa precisione. E’ la fine delle epoche, e forse è la fine di quell’espressione che Giambattista Vico denomina “corsi e ricorsi storici”: nello spazio coesistono vicino e lontano, nitido e mosso, antico e contemporaneo. Lo sviluppo lineare attraverso il tempo è soppiantato da una gigantesca ragnatela in cui cronologia e gerarchia diventano termini desueti. Un esempio di ciò che intendo per ecosistema potrebbe evincersi dalla mia permanenza in Alaska. Stavamo ristrutturando la casa che si rivelava ogni fine giornata imprevedibilmente diversa. Verso le sei, tutti partivano e rimanevo io da solo a dormirci, in mezzo al nulla, di fronte all’oceano che mi serviva da schermo. Ricordo che determinavo lo spazio e le mie attività come fosse il programma di un gruppo di giovani scout. Era tutto molto spontaneo ma avevo l’impressione di creare un universo le cui regole (ferree, per non impazzire) scaturivano dal rapporto tra me e l’architettura di questa casa in movimento.
C’erano dei momenti quasi performativi come il mangiare il gelato Ben&Jerry’s facendo forme geometriche con i passi sul terrazzo. Poi c’erano i lavori manuali per ristrutturare la casa; e poi ricordo di aver scritto a mia madre, in una mail ormai perduta, di aver inventato le “saune narrative” in cui imitavo la voce delle persone… e poi tante altre cose. Un giorno, tramite alcuni elementi scelti, mi piacerebbe riuscire a portarti in quel luogo e continuare questa conversazione.

Andrea Bellini Va bene, faremo un giro insieme in quel luogo un giorno.  Mi fai pensare che tu appartieni veramente ad  una nuova generazione di artisti per la quale il comportamento, l’atteggiamento e lo stile di vita alla fine sono più importanti dell’oggetto prodotto. Anche se poi – a differenza di personalità piu’ radicali come Emilio Prini- la vostra generazione alla fine qualche oggetto lo realizza comunque. Magari senza troppa convinzione: si tratta quasi di indizi di situazione, di passaggi umorali occasionali e quindi incoerenti dal punto di vista formale. Per esempio mi viene in mente il tuo lavoro sulla balena…

Alfredo Aceto Ero appena entrato all’ECAL a Losanna ed ero stupito da questo gigantesco palazzo così moderno e pulito dove ciascuno sapeva sempre cosa fare e dove andare. Gli sprechi di tempo erano ridotti all’osso, strano per una scuola d’arte.
Così ho pensato di creare un grande cadavere, il più grande possibile, per metterlo nella hall del dipartimento e vedere cosa succedeva. Mi interessava capire fino a che punto quella “cosa” poteva considerarsi un’opera d’arte, un’effigie di una scultura o una maquette di come occupare tanto spazio quando si è tanto giovani. Le ho poi prestato uno dei miei due occhi. Non mi hanno mai permesso di portarla all’ECAL quindi è in qualche modo un opera fallita, specie perché si è già rotta due volte. Forse dovrei lasciarla rotta… la immagino attorniata da un team di artigiani che la ripara e uno che la distrugge.

Andrea Bellini Un’opera abortita insomma, parlami invece del fumetto dedicato a Paola Pivi, che scorre tra queste pagine della nostra intervista….

Alfredo Aceto Non si tratta di un fumetto dedicato a Paola Pivi ma della storia di due anni della mia vita. Quando sono tornato da Anchorage mi ha chiamato Milovan Farronato da Via Farini chiedendomi di andare a trovarlo.
Mi da appuntamento e mi dice che sarà presente anche un certo Roberto di cui non mi rivela il cognome.  Inizio a lavorare con Milovan e con questo Roberto che per i diversi mesi in cui ci siamo confrontati non mi ha mai rivelato il suo cognome. Ricordo la sua intelligenza corrosiva. Mi suggerisce di fare un lavoro sul modo in cui ho vissuto il rapporto con Sophie Calle e con Paola Pivi. Così accetto e decido di farne un fumetto.

Andrea Bellini Roberto Cuoghi, l’ho incontrato proprio ieri a Milano, che coincidenza… Cosa hai imparato da lui?

Alfredo Aceto Ho imparato a separare momenti di grande libertà e spontaneità da momenti di rigore in cui analizzi le ferite che ti ha lasciato l’esperienza.

Andrea Bellini Sperimentare l’ignoto attraverso l’esperienza quotidiana è uno degli aspetti  fondamentali della sua ricerca.  E a proposito di esperienza, parliamo di pittura, so che fin da bambino hai dipinto.

Alfredo Aceto La pittura è stato il primo rapporto forte che ho avuto fin da bambino. Si è sempre trattato di imparare per poi disimparare, come una fisarmonica. A dieci anni sapevo riprodurre impeccabilmente una mano con il carboncino. A sedici non sapevo nemmeno più fare la forma di un uomo che sta in piedi. Quando ero bambino mi spedivano in uno sperduto paesino francese con una baby-sitter. Non avevo voglia di fare nessuno sport né nulla di ciò che interessava gli altri bambini. Così mi mandavano a fare questo corso di pittura. Per anni ho fatto questo corso estivo tutti i giorni in modo ossessivo; era l’unica cosa che non mi faceva disperare. Eravamo una ventina di persone. Io andavo sempre, ero quello sempre presente. Tutt’ora vedo la pittura come quella cosa capace di attrarre e di respingere allo stesso tempo… come quando da bambino dipingevo solo per evitare di scalare le montagne. Questo è il motivo per cui successivamente ho fatto sia i bersagli, sia i dipinti con i timbri: i Mask Painting.
Sono stato in una tenuta di caccia dove dipingevo dei monocromi orribili mentre gli altri cacciavano. Ad un certo punto vidi i loro bersagli raffiguranti animali dipinti e pensai che, non riuscendo a recuperare le mie capacità tecniche, avrei potuto chiedere loro quei bersagli.  Poi ci ho ridipinto sopra. Quando dipingi sopra ad un altro dipinto capisci tutti gli errori che avresti fatto se non ci fosse stata la base sottostante. E il sabotaggio del procedimento di invenzione.

Andrea Bellini Ed i dipinti con i timbri?

Alfredo Aceto I dipinti con i timbri nascono anch’essi dal mio rapporto conflittuale con la pittura. Mi sorprendeva che di colpo ci fossero centinaia di artisti il cui unico pretesto era quello di “fare pittura senza dipingere”. Di colpo tutti hanno iniziato a fare queste tele senza realmente dipingere. Il fenomeno mi interessava perché era come un abbandono globale delle regole interne del lavoro per una comunanza di metodo. A nessuno di quelli importava più il perché ma solo il come. Nel mio caso invece questo svuotamento di contenuti riguardo all’atto pittorico era carico di significati.

Andrea Bellini Quali?

Alfredo Aceto Quali artisti?

Andrea Bellini Quali significati?

Alfredo Aceto Parlo di malinconia del gesto. Ho sempre imparato a fatica e dimenticato facilmente. Bastavano pochi giorni senza allenamento per non riuscire più a mantenere la stessa concentrazione e precisione.
Da anni ero li a chiedermi quale fosse il mio rapporto con la pittura e trovavo divertente vedere che chi non aveva questo mio problema faceva di tutto per potercelo avere: voler dipingere senza esserne capaci.  E una sorta di tributo a quella generazione di giovani pittori.

Andrea Bellini Ma quindi tu alla fine sai dipingere o no? Il lavoro dei timbri sembra molto in sintonia con le pratiche di questi pittori giovanotti di cui parli…

Alfredo Aceto Ne è un omaggio in qualche modo!

Andrea Bellini Anche i monumenti agli scrittori scomparsi degli anni Novanta sono un omaggio…

Alfredo Aceto Certamente ironico ma c’è anche della vera e sana malinconia.

Andrea Bellini Ancora la malinconia…

Alfredo Aceto Sempre la malinconia! Ogni tanto prendo la macchina e vado fino a Losanna per fumare una sigaretta sull’uscio della prima casa che ho avuto in Svizzera.

Andrea Bellini Cosa ti fa paura?

Alfredo Aceto Non essere preso sul serio.

Andrea Bellini E cosa ti da gioia?

Alfredo Aceto Non prendere nulla troppo sul serio.

Andrea Bellini Quindi tu non credi a niente?

Alfredo Aceto Nella casa di Moncalieri ci sono due tuje gigantesche una attaccata all’altra. Si possono vedere dalla città intera perché sono davvero più alte di tutti gli altri alberi.
Subito sotto c’è un tavolo di marmo su cui mia nonna leggeva il giornale con noi nipoti. Ogni tanto pronunciava qualche frase dalla valenza assoluta. Per lei erano tutte verità inconfutabili! Da li ho smesso di credere.

Andrea Bellini Pensi di avere delle colpe?

Alfredo Aceto Sensi di colpa.

Andrea Bellini Tornando alle tue ricerche e alla malinconia, cos’è Pripyat?

Alfredo Aceto Pripyat è una città ucraina abbandonata dopo la catastrofe nucleare nel 1986. Era la città in cui abitavano i lavoratori della centrale nucleare di Chernobyl.
Dal suo abbandono la natura ha preso il sopravvento sull’architettura inglobandola e generando nuovi mondi. L’ho scoperta su un libro di scuola, al primo anno di liceo, ed è stata subito una rivelazione.
La città è costituita da grandi palazzi che ricordano un po delle navi da crociera abbandonate. Giganteschi spiazzi raccolgono, suddivisi per categorie, tutti i mezzi abbandonati che vanno dagli aeroplani alle automobili passando per i mezzi pubblici. Da li feci altri dipinti sui cimiteri delle barche trovati in Bretagna.
All’epoca, era il 2005, avevo appena concluso una serie di dipinti sulle periferie che facevo nello studio del mio maestro Francesco Preverino.
Andavo a Milano il sabato con mia madre a vedere le mostre di Mario Sironi. Ricordo che per un compito di arts plastiques alla scuola francese riprodussi un lavoro di Sironi.
Vedendo quell’immagine sul libro di geografia capii che cio che più mi interessava erano degli spazi che erano stati predisposti a qualcosa ma che per un motivo x o y non svolgevano più la loro funzione. E un lavoro sulla malinconia di un ragazzo che, in un presente dove le distanze sono annullate dal virtuale, aveva eletto Pripyat come luogo di partenza.

Andrea Bellini E quante volte l’hai dipinta e perché? In quale periodo?

Alfredo Aceto Ho dipinto Pripyat circa tutti i giorni tra il 2005 e il 2007, data in cui espongo quaranta lavori scelti presso una galleria dove bisognava pagare per esporre. Francesco Preverino scriverà il testo per la mostra dove parla prettamente del mio rapporto con la pittura più che con la città. Ho poi selezionato circa trecento dipinti che ho purtroppo venduto ad amici per poche decine di euro.
La dipingevo compulsivamente, trovando un piacere non tanto nel risultato quanto nella gestualità delle forme. Era un lavoro che mi accompagnava tutto il giorno, passando dagli schizzi fatti sui libri di scuola durante le lezioni, ai bozzetti preparatori fatti nello studio del maestro, alle tele vere e proprie. Ma il rapporto con l’architettura della città è sempre stato più importante rispetto al fare pittorico.
Probabilmente era un modo per costruirmela da solo quella città dove non mi lasciavano andare a causa delle radiazioni. Partivo dalle immagini del satellite per essere sicuro di rappresentare tutti gli scorci e tutte le vie, con un approccio più architettonico che non di fantasia.

Andrea Bellini Cosa resta di Pripyat oggi nel tuo lavoro?

Alfredo Aceto Probabilmente funziona o dovrebbe funzionare da cornice. Come se avessi gettato le basi per un luogo da cui partire. La cosa che più rimane è l’approccio… l’incapacità di soddisfarsi di un punto di vista e quindi subito la necessità di svilupparne altri. Se l’avessi dipinta dieci volte sarebbe stata la stessa cosa eppure in me non sarebbe stato sufficiente. Spesso ho immaginato Sophie Calle come monumento per questa città. Anziché vendere il Colosseo al mondo dell’arte, vendere il mondo dell’arte come “arte per le rotonde” a questa città.

Andrea Bellini Cioè metteresti Sophie Calle al centro delle rotonde?

Alfredo Aceto È la perdita di memoria di cui la mia generazione si vanta. Fare un monumento al mondo dell’arte, non che Sophie Calle ne sia per forza un esempio, ed installarlo a Pripyat è un modo per preservare la memoria. Xavier Vehilan ha installato una scultura in onore a Jean-Marc Bustamante, a New York. Credo che questo genere di celebrazione sia il peggior modo per perdere la memoria, per aggiungere un’ennesima immagine alla solita lista. Forse i monumenti devono esistere solo per esistere, come questa città che esiste per se stessa.

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